Capitoli 1-11

Prima parte
1.

Il maresciallo era alla stazione dei Carabinieri di Chiesa in Valmalenco ormai da tre anni e ci stava bene. Molto.
Era arrivato al piccolo paese tra le montagne dominate dalla catena dello Scalino dopo un lungo peregrinare in tutto l’arco alpino. Friuli, Piemonte e una breve permanenza vicino a Bolzano. Gli mancava la Val d’Aosta per fare l’en plein delle regioni vicine all’Europa.
Chiesa era un piccolo mondo, adagiato tra monti e tradizione, chiuso come solo le comunità montane sanno essere. Un mondo che conquisti solo quando hai ottenuto la fiducia di chi ci abita.
E il maresciallo c’era riuscito, con la sua aria decisa, la sua disponibilità al sorriso, la sua capacità professionale accumulata negli anni.
Giunto quasi alla cinquantina, Marco Pandolfi si era insediato in punta di piedi, forte del suo accento della Bassa con farciture tutte milanesi.

2.

Insediato, con famiglia al seguito.
Una moglie troppo bella per essere vera e una figlia di dodici anni, intraprendente, determinata, dura come il granito delle montagne che la circondavano.
I primi commenti in paese erano stati all’insegna del veleno tipico paesano, senza freni, visto che l’avevano subito inquadrato come incompetente.
- Che comanda è sua figlia, altro che lui!!! Ma si può?, borbottavano neanche a bassa voce i soliti del paese.
Come quando il vecchio parroco passava le consegne a quello nuovo, come ogni volta che cambiava il sindaco dopo le elezioni.
Non andava mai bene nessuno.
Era solo un approccio preventivo, per proteggersi, un mettere le mani avanti, un voler esorcizzare i cambiamenti.
Ma i valligiani, ‘scarpe grosse e cervello fino’, erano tutt’altro che sprovveduti. E capaci di cambiare idea appena il ‘nuovo’ muoveva i suoi primi passi, e li muoveva nella direzione giusta. A quel punto, farlo diventare uno di loro, senza se e senza ma, era immediato.
Poi si sa, la divisa, l’autorità e soprattutto l’autorevolezza avevano completato l’opera.
Uno di loro, uno di noi, in un mondo sospeso tra freddo porco in inverno e calde estati innaffiate di turismo provinciale, a volte un po’ becero.

3.

Al maresciallo le montagne piacevano un sacco.
Originario della bassa lombarda, da sempre aveva frequentato le catene montuose della regione grazie alla passione sconfinata dei suoi genitori per i prati, i silenzi della natura e il buon mangiare. E l’aria ‘fina’, come diceva sempre sua madre.
Quando aveva deciso che la sua vita sarebbe stata al servizio dello Stato, aveva fatto di tutto per ottenere una prima destinazione in una qualunque località montana dell’arco alpino. Sarebbe andato bene anche qualche luogo sperduto sull’Appennino, ma ‘le Alpi, si sa, sono un’altra cosa...’ aveva commentato con un po’ di apprensione e di supponenza.
E allora, grazie a qualche conoscenza nel posto e al momento giusto, e a un po’ di pazienza, ecco arrivare gli anni del Friuli e poi, tra una promozione e l’altra, il trasferimento in Piemonte vicino al confine con i cugini d’oltralpe, e poi la toccata e fuga in Alto Adige.
Finalmente, ora, una destinazione che lo soddisfaceva completamente: i suoi monti, la sua regione, la sua gente.

Da quando era arrivato nella provincia di Sondrio, si sentiva come se la vita fosse ricominciata.
Tutt’altro che appagato e con l’idea di tirare a campare fino alla pensione, Pandolfi aveva invece ricominciato ad appassionarsi al suo lavoro, aveva scacciato i demoni delle crisi esistenziali che periodicamente lo assalivano in merito all’utilità della sua missione, del ruolo di ‘difensore’ della legge’ in una società ormai sempre più cafona e dedita all’illegalità diffusa e obbligatoria.
- Bello qui, ci piacerà - aveva confidato alla moglie, sbirciando per la prima volta dal giardino della villetta che gli era stata assegnata e che dominava tutta la valle e il paese dall’alto.
- Ne sono convinta Marco, almeno lo spero!, aveva risposto la sua compagna di vita Elena, da sempre al fianco del marito nei suoi continui trasferimenti, da sempre l’anima più pragmatica della famiglia e meno sensibile ai facili entusiasmi.
- Anche nostra figlia ne sarà felice, aveva concluso lei - osservando la figlia che già cominciava a prendere possesso del giardino e del grande pino secolare che troneggiava maestoso nel centro.

4.

Una visione, ma veramente.
Chi? Elena, la moglie del Pandolfi appellata, appena messo piede in paese, come la Marescialla.
Si sa, nei paesi c’è quella ricorrente abitudine di affibbiare un epiteto, talvolta volgare. Quando il soprannome è solo un bollino appiccicato con affetto e dolcemente canzonatorio, allora diventa una carezza sul viso.
Lei alta, slanciata, dai capelli lunghi e neri, lisci come gli spaghetti, viso affilato, occhi azzurri come il mare, lunghe mani che sembravano prese in prestito da qualche affresco tardo medievale. Sembrava una giovane a metà tra gli anni ‘70 e una squaw di qualche tribù Apache.
Ti guardava con quegli occhi, quasi volesse penetrarti. Oppure farti a fettine.
Diretta, asciutta nei modi, aveva di fatto, per amore, inizialmente rinunciato alla sua carriera di editor in una premiata casa editrice milanese per seguire il volteggiare del marito tra le Alpi.
Era decisamente più giovane del marito, più di dieci anni, ma non aveva avuto alcun dubbio quando lui, un po’ impacciato, le aveva chiesto di condividere insieme la vita, premettendo che la sua professione imponeva la valigia sempre pronta all’uso.
L’aveva guardato negli occhi, e, senza rispondere, gli aveva afferrato la nuca come Grace Kelly con Cary Grant in Caccia al Ladro e l’aveva lungamente baciato.
Era bastato e il giorno dopo già stavano organizzando matrimonio - la divisa lo imponeva -, ricerca della casa nella nuova destinazione, mobili, carte e chissà che altro. E figli.
I primi tempi erano stati bellissimi e poco dopo era arrivata la Giulia, una furia che aveva sconvolto la vita di entrambi.
Ma nulla sembrava incrinare il loro idillio, nulla sembrava intervenire per interrompere quel meraviglioso equilibrio che entrambi avevano cercato e che avevano trovato.
Una vera storia d’amore, come tante, che funzionava.

5.

Un rumore diffuso e convulso.
Peggio, un gigantesco casino che stava affossando il paese, tra betoniere gialle dalle ruote più alte di un uomo e polvere che ammorbava il povero pedone che si avventurava per le vie maestre.
Il Grand Hotel Valtellina era una struttura di inizio Novecento, immersa nel paradiso della pineta che faceva da cappello al paese e che si estendeva sul fondo della stretta valle, per il lungo.
Un bellissimo edificio austero e imponente, costruito su una grande ‘elle’, una vera e propria grande gloria del passato.
Tra le due guerre aveva assistito alla villeggiatura (così si diceva un tempo…) di autorevoli personaggi pubblici del Ventennio, qualche gerarca con amante, famiglie danarose molto vicine al regime, nobiltà a vario titolo.
Poi era crollato tutto: la guerra, il declino, la ripresa post-bellica, e negli anni del boom l’albergo era diventato meta di alcuni rappresentanti della nuova nomenclatura democratica e cattolicissima, di anziani ricchi con rendite d’oro e attori, starlette e qualche personaggio della sempre più invasiva tv.
Fino agli anni Ottanta, quando tutto era di nuovo cambiato. Il mondo non aveva più voglia di una residenza così esclusiva in una valle che esclusiva non era proprio.
E allora - di gran moda al tempo - via con la ristrutturazione, via con il frazionamento e la realizzazione di appartamenti, per soddisfare le necessità di quella piccola e media borghesia lombarda emergente, alla ricerca di investimenti e di seconde case per le vacanze, estive e invernali.
Una gigantesca operazione edilizia, ormai conclusa da tempo, ma che stava vivendo un secondo e inaspettato round grazie alla decisione ‘rivoluzionaria’ dei condomini di realizzare una piscina sotto l’edificio, unita a un piccolo centro termale per riscaldare le fredde ossa dei milanesi (e non solo) in trasferta.
- Voi siete pazzi!!!, aveva tuonato il geometra Paluzzi nell’assemblea condominiale che sanciva l’inizio della discussione sul progetto. - Non solo questa cosa ci porterà alla rovina economica, ma soprattutto minerà la stabilità dell’edificio, che ha ormai oltre un secolo, aveva concluso agitando il pugno come se fosse Togliatti in un comizio di piazza appena dopo la Liberazione.
Ma il gruppo più intraprendente del condominio aveva preso la sua decisione, o meglio era partito per la tangente, e i preventivi e le imprese era stati stilati e scelti.
Pochi voti contrari, un astenuto e una maggioranza che avrebbe fatto sbiancare il parlamento bulgaro riunito in sessione plenaria.
Una piscina, una sauna, un bagno turco e una zona relax.
L’idea non era male e doveva realizzarsi sfruttando quella che un tempo era la discoteca dell’albergo, oggi locale magazzino, per tre quarti inutilizzato.
La piscina non sarebbe stata olimpionica - 15 metri al massimo - ma permetteva a tutti di nuotare, mettersi al bordo a ciacolare e rilassarsi, accedendo facilmente al centro termale dove ognuno poteva sentirsi un antico romano o il figlio dei reali britannici.

6.

Le autorizzazioni di rito erano state solerti e rapide.
Il Comune non aveva avuto nulla da ridire sul progetto, anche perché non era previsto alcun onere per l’amministrazione pubblica, e soprattutto il sistema in costruzione aveva recepito tutte le norme - scritte e non scritte - in tema di rispetto ambientale, contenimento dei consumi e dei costi e riciclo dell’acqua utilizzata. Niente da dire, era un progetto all’avanguardia e aveva l’ambizione di essere un esempio e un punto di riferimento nella provincia.
Unico difetto: non era proprio a buon mercato, anzi. Da qui l’ira del geometra in assemblea e le perplessità di altri.
- L’assemblea approva, aveva sancito il presidente Prandelli. E giù tutti, o quasi, ad applaudire, tra sorrisi di complicità e frasi a effetto da segnare sui libri di storia. Qualcuno nella penombra aveva anche dato di gomito al vicino.
- È un gran giorno per il nostro condominio, aveva commentato l’ex professore di storia delle medie, in vena di fermare il momento con una frase di rito.
- Quando venderemo, con questa miglioria, le case varranno quasi il doppio, concludeva sparandola grossa l’ex manager di azienda pubblica ormai in pensione, da sempre sensibile ai temi economici.
- Pazzi, siete pazzi, riaffermava con forza il Paluzzi, abbandonando la sala da sempre luogo deputato alle assise condominiali.
- El cambierà idea anca lù, vedaret, concludeva un altro, da sempre l’ottimista più ruspante della combriccola.
Ecco perché le betoniere, ecco perché quel rumore e quella polvere.

7.

- La donna, maresciallo, la donna doveva scartare! O la voleva tenere per sé per poi arrestarla?, domandò il Monatti, in pensione da tempo immemorabile, e da sempre frequentatore accanito del BarCentro, polo di attrazione e aggregazione locale.
“Si passa la sera, scolando barbera…” cantava il grande Gaber nella Milano che non c’è più. A Chiesa, il ritrovo serale o dei pomeriggi festivi era un rituale ancora consolidato e, anzi, sempre più apprezzato.
Tra una carta e l’altra e un bicchiere di Valtellina, rosso corposo dalla gradazione impegnativa, si faceva il punto della situazione in paese, si ascoltavano le chiacchiere sospese tra il gossip, il veleno puro e qualche verità, si tessevano business e obiettivi, si commentava la domenica di calcio. Insomma si condivideva la vita di tutti i giorni senza la necessità di avere un profilo su Facebook.
- Mi scusi Monatti, ma le ho scartato il tre per chiamare la sua presa con il sette, e invece lei non se ne è accorto, mi pare…, rispose il maresciallo, con una punta di ironica perplessità visto la distrazione del compagno di bisca.
Il maresciallo era un animo dolce, raffinato, l’esatto opposto del militare in carriera tutto d’un pezzo. E non riusciva, letteralmente!, a essere aggressivo, almeno in queste piccole dispute paesane. Soprattutto non era un’anima da bar, visto che in quel posto ce lo vedevano proprio poche volte.
Il suo atteggiamento conciliante e sempre pieno di collaborazione aveva fatto buona impressione agli abitanti. I più scettici l’avevano ritenuto invece troppo morbido, forse debole, sicuramente non all’altezza.
Si erano ricreduti quasi subito però, non appena avevano dovuto prendere visione che il neo comandante aveva risolto un intricato caso di furti di animali in valle che proseguiva da mesi e che il suo predecessore non era riuscito a risolvere. Poi, grazie anche alle sue capacità di costruire relazioni con le persone che contano, il maresciallo aveva conquistato anche i più ostili, diventando definitivamente membro della comunità.
- Ma avete visto cosa continuano a portare giù dal Valtellina? (così chiamavano amichevolmente il residence in paese) - Ieri è passato un camion gigantesco, con detriti che neanche a Gaza nelle peggiori giornate d’assedio sionista riescono a raccogliere. Ma cosa stanno facendo là sopra? La torre di Babele?, chiedeva il Franco Mambelli, farmacista e primo consulente sanitario, ormai in via di ritiro a favore della figlia.
- Beh il progetto è bellissimo. - Una piscina, un centro termale, uno spazio relax... Ho tentato in tutti i modi di far diventare questa isola del benessere un club aperto a chi volesse iscriversi. Poteva essere una risorsa importante per il paese che non ha grandi attrattive per quei turisti, e non solo, amanti della cura del corpo. Oggi c’è la piscina comunale che ti offre la sauna, ma un centro termale all’altezza, se uno lo vuole, deve andare fino a Bormio, un viaggio..., osservava il sindaco Efferati, da due anni in carica alla guida di una lista civica con pennellate di rosso.
- E come è andata a finire? curiosò il Monatti, da sempre alla ricerca di notizie su chiunque e su ogni cosa.
- Il condominio ha detto no, proteggendo la propria oasi e spaventandosi all’idea di dover aprire il cancello del condominio a esterni, parcheggio selvaggio e caos ogni due per tre. E detto tra noi, fossi stato in loro, avrei fatto anch’io così. Io come amministratore pubblico ci ho provato, ma sapevo già come sarebbe andata a finire. Se usciamo da questo andazzo economico disastroso, se le borse dello stato ricominciano a finanziare i progetti degli enti locali, se il mondo rinsavisce un po’, e se sarò ancora sindaco, giuro che mi impegnerò nella realizzazione di un centro che permetta a ognuno di poter sognare Roma ai bei tempi, con vista sul Pizzo Scalino. Sarebbe una bella patente per il paese.
- Oh madonna, cosa fa, campagna elettorale?, domandò il quarto compagno di gioco, il Carlo Mascherpa, origini milanese, trapiantato a Sondrio, e ora tra gli artefici della ‘scalata’ agli impianti di risalita per lo sci, con l’avveniristica e velocissima funivia che in un sol balzo raggiungeva quota duemila.
- Ma se mancano quasi tre anni alle elezioni, dai, sto solo sognando a occhi aperti. Potrebbe essere un bel progetto, ma tanto di danée ghe n’è no, una piscina già c’è, quindi…, rispose il Sindaco sconsolato.

8.

Il geometra Berardi era originario di Chiesa e dopo le scuole medie aveva cominciato a girare le valli offrendo le sue prestazioni professionali nel settore edile. Faceva il muratore, insomma.
Ma era scaltro, veloce, e soprattutto capace. Aveva ormai sulle spalle un’onorata carriera, aveva preso il diploma alle serali, e si era messo in proprio dopo pochissimi anni.
A Morbegno, giù in Valtellina.
La sua EdilMorb - un nome che sembrava più adatto a qualche personaggio della saga di Harry Potter - era tra le società di costruzioni più attive e conosciute nella provincia, molto stimata anche in quel di Lecco e dintorni, e con grandi business anche in Svizzera.
Il suo sogno era sbarcare anche sul mercato bergamasco, da sempre punto di riferimento per qualità e da sempre il maggior concorrente in tutto il nord d’Italia (e non solo) grazie alla tradizione e a un innato marketing del mattone.
Era un uomo grande, possente, con un petto prorompente, bellissimo, dal fascino infinito. Quando passava, le donne si voltavano a guardarlo, con l’irritazione neanche troppo celata dei loro accompagnatori.
Capelli bianchi da sempre, altezza che sfiorava gli uno e novanta, viso sempre abbronzato e scolpito, Berardi questa sfida del centro termale sotto l’albergo d’inizio ‘900 l’aveva colta prontamente, partecipando in prima persona alla progettazione, ai disegni e all’impatto ambientale, alla selezione e all’acquisto dei materiali, e ora alla parte iniziale dei lavori.
Aveva da sempre una frase tanto vecchia quanto veritiera, che spendeva di fronte al cantiere appena allestito per motivare, incitare e appassionare i lavoratori cooptati.
- Chi ben inizia è a metà dell’opera.
Era uno che ci credeva, appassionato del proprio lavoro, amante della qualità e poco propenso ai compromessi. Anche il personale lo cercava e lo assumeva secondo certi criteri, secondo le capacità e secondo la serietà. E in regola, a differenza di molti altri, sempre sul confine tra legalità e furbizia.
Un uomo conosciuto, il Berardi, e rispettato.
E infatti nessuno aveva fiatato quando era stato proposto il nome della EdilMorb per il lavoro sotto il residence, anche perché la proposta alternativa faceva rizzare i capelli ai più, anche a chi di costruzioni, picconi e trapani non ne sapeva proprio nulla.
Era perfetto anche perché, cosa non da poco, era di origine malenca e aveva ancora la madre, anziana, che viveva molto vicina al Residence.

9.

I lavori erano cominciati a inizio settembre, il 4 per l’esattezza, un lunedì.
La stagione estiva era ormai quasi finita. Quell’anno tra l’altro era piovuto parecchio e quindi molti se ne erano fuggiti anzitempo. Il flusso turistico dei milanesi bauscia si era quindi di molto assottigliato, rendendo le strade di più facile accesso, soprattutto per i bestioni a otto ruote.
- Cominciano!, aveva osservato con essenzialità locale qualche cittadino malenco vedendo passare i primi camion in direzione del cantiere.
- Cominciamo bene, aveva chiosato un altro, agitando la mano davanti al viso cercando di scacciare polvere, fumo, puzza e senso del ridicolo.
Il paese non l’aveva presa troppo bene.
Era vero, era lavoro, anche per qualcuno del luogo, ma era possibile tutto ‘sto bordello per fare stare a pancia all’aria qualche turista infreddolito e più pigro di un bradipo?
Insomma, lavorare per vivere va bene, ma lavorare per far fare un cazzo non era moralmente concepibile.
Ma tant’è.
I lavori avevano avuto inizio, il caos spaccava le orecchie e la polvere arrossiva gli occhi, i camion giravano, e forse anche le balle.
Ma non era la fine del mondo.

10.

- Giuliaaaaaa, urlò il Mattia, suo compagno di classe nella seconda media del paese, e da sempre fidato co-autore di giochi e avventure. - Che fai, esci?
- ‘Rivo, dammi un momento, gli rispose dalla cancellata che proteggeva il giardino della casa.
- Mamma, esco col Mattia, andiamo un po’ in giro, va bene?
E ogni volta la madre ringraziava il cielo e gli dei di tutti gli olimpi per essere cascata in un paese come quello, dove la figlia di quasi 12 anni poteva, indisturbata e senza pericoli, allontanarsi da casa senza la necessità di essere accompagnata, seguita, protetta.
- Va bene, stai in zona e attenzione alle auto!, raccomandava più che altro per obbligo di ruolo.
E allora giù dal sentierino che partiva proprio dalla villa, giù e su, alla ricerca di qualsiasi cosa potesse fermare le loro gambe e catturasse le loro fantasie in continua apnea di avventura.
La villa non dava sulla strada, era vicino a un incrocio di stradine e saliscendi pedonali circondati da vecchie case e stalle oggi ormai ristrutturate e rese abitabili - soprattutto vendibili.
Erano i percorsi della vecchia contrada, che evitavano la strada maestra e che rendevano tutto molto misterioso e a volte ‘terrificante’, soprattutto al calar del sole. Bellissimo terreno di giochi, di incontri e di nascondigli. A due passi dal torrente che scorreva impetuoso.
Era una mattina senza scuola e le ore migliori potevano essere riempite con qualcosa di diverso.
Così come tutti i pomeriggi comunque, sempre insieme, sempre in cerca.

11.

Giulia era tutta sua madre.
Molto alta per la sua età, gambe lunghe e affusolate, il corpo che ormai dava i primi segni di donna vera, con il viso facilmente abbronzato, capelli neri, con lo stesso carattere di Elena, anzi di più. E lo sguardo ingenuamente seducente. Insomma, bellissima.
Se sua madre era determinata e assertiva, lei lo era allo stato puro, senza alcuna mediazione. Spesso la si sentiva ordinare…
- Allora, oggi si va in pineta, ok? Lo imponeva al gruppo degli amici. E nessuno osava contraddire il ‘capo’.
Oppure arringava la folla di compagni per una pianificazione fintamente democratica dei giochi a scuola nell’intervallo lungo del primo pomeriggio. Bastavano solo poche indicazioni con la voce giusta e la postura adatta e i ragazzi della scuola si allineavano come pecore smarrite.
Una sorta di leader dichiarato. Una leadership che però non degenerava mai nell’arroganza e nell’umiliazione, conservando sempre il rispetto degli altri.
E tutti i maschi della scuola, alle prime turbe ormonali, se la mangiavano con gli occhi.


Continua a leggere, dall' 11 maggio, da qui...