Capitoli 57-72

Seconda parte

57.

Il servizio stradale Sondrio-Chiesa ha una personalità bipolare.
Da una parte quella ‘normale’, che permette ai malenchi di raggiungere il capoluogo di provincia per studio, lavoro o per sollazzo. Un servizio locale, quindi.
Alla mattina presto gli studenti calano nella cittadina valtellinese per spargersi tra le diverse scuole superiori che naturalmente in valle non ci sono. Alla mattina prestissimo, alle prime corse, chi non vuole o non può permettersi l’uso dell’auto, utilizza la corriera per raggiungere il proprio posto di lavoro in città.
Durante il week end molti ragazzi invadono regolarmente la cittadina per cazzeggio puro, per incontrarsi con amici di altre valli o per fare lo struscio nel centro. E poi shopping, casino e risate.
La piazza Garibaldi, ancora più funzionale all’incontro da quando restaurata e ridisegnata, offre un salotto all’aria aperta per tutti ed è il luogo ideale per i ritrovarsi prima di raggiungere locali, ristoranti e chissà che altro.

Poi c’è l’altro tipo di servizio, quello direttamente legato agli orari ferroviari. O meglio in linea con un tipo di treno, quello che arrivava dal lago, da Lecco, e ancora più in giù, da Milano.Il tempo per i passeggeri di scendere dal treno, percorrere il sottopassaggio e raggiungere la stazione degli autobus, dove le corriere si staccano dal loro posteggio per raggiungere rapidamente le valli, verso la bassa, verso le valli e i paesi più sperduti. È un servizio articolato, complicato vista la conformazione del territorio, anche se estremamente funzionale.
Da lì parte anche l’autobus per Chiesa, pochi minuti dopo l’arrivo del treno da Milano. Attraversa velocemente la città per inerpicarsi quasi subito verso la Valmalenco.

Un viaggio di una mezz’oretta circa o poco più, bellissimo, almeno per il turista che ha tempo da perdere. Tornanti e strettoie, boschi e pinete, paesini da attraversare e fienili da ricordare, chiese e conventi e la valle tutta, che tende a stringersi per lasciare posto a un certo punto solo alla strada e al Mallero, il torrente che scende da lontano, genitore della valle. Con la catena del Tremoggia sullo sfondo sempre innevata, che fa da cornice e da porta verso il mondo ‘sconosciuto’ alle sue spalle.
Una valle stretta e buia, almeno d’inverno, meravigliosamente accogliente e solare d’estate. Ma sempre montagna vera.
- La montagna è una cosa seria, continuava a ripetere il capo della locale sede del soccorso alpino, sempre alle prese con la stupidità dei turisti o finti alpinisti della domenica che troppo spesso doveva andare a recuperare appesi da qualche parte.
La Valmalenco era seria e, come recitava un vecchio manifesto del Cai appeso in tutti i rifugi, la sua montagna era anche severa.
La montagna è amica, ti abbraccia, ma odia venire presa per i fondelli o sottogamba. La montagna pretende rispetto. Altrimenti si arrabbia e ti castiga. E quando la montagna si incavola non ha mezze misure: o dentro o fuori, e fuori è molto brutto.

58.

Il piazzale della piccola stazione di Sondrio, anch’esso ristrutturato di recente, aveva abbandonato quell’aspetto freddo e poco accogliente del passato. In fondo era bastato deviare la strada, creare uno spazio davanti al piccolo edificio, lastricare con dell’elegante porfido il manto stradale ormai riservato ai pedoni, buttare qua e là qualche panchina e il gioco era fatto.
Almeno i viaggiatori, in arrivo e in partenza, usciti dalla stazione vera e propria non cascavano immediatamente nel traffico cittadino.

Diverso, molto diverso, il passeggero che comparve davanti alla stazione quel giorno.
Alto, biondo, sorridente, bello come il sole e con un cappello alla Crocodile Dundee che lo faceva sembrare un esploratore del nuovo mondo alla ricerca delle origini dell’uomo nella vecchia Europa.
Dietro la sua schiena larga e ben scolpita troneggiava uno zaino che avrebbe potuto quasi contenere una persona, e forse pesava uguale.
Si guardò in giro, ma non con quell’aria sperduta di chi è capitato in un luogo mai visto e che cerca disperatamente di orientarsi o perlomeno di capire qualcosa. Guardava, semplicemente, e le persone che indaffarate gli giravano intorno scrutandolo, spesso dal basso, avrebbero potuto giurare che avesse stampato un marcato sorriso sulle labbra e che annusasse l’aria come un segugio a caccia di una volpe.
- I beg your pardon, madame. Dove posso trovare il bus per Chiesa in Valmalenco, please? Chiese, in una sorta di grammelot tra l’inglese e l’italiano, a una signora con tanto di sporta della spesa che stava tranquillamente passando di lì, senza domandarsi neanche per un attimo se avesse potuto comprenderlo.
Lei si voltò, scansò il dio Apollo improvvisamente caduto tra le montagne, sfoderò un sorriso imbarazzato, si incassò nelle spalle e corse via senza rispondere.
Ci provò due o tre volte con altrettante persone, senza successo.
Un ragazzo stava osservando tutta la scena. Gli si avvicinò e gli domandò:
- Parli italiano?

- Sì lo parlo, ma non molto bene, rispose, lasciando comunque aleggiare una cadenza tipica milanese che sorprese il suo interlocutore.

- Devi andare a Chiesa, giusto?, accompagnando le poche parole con un classico gesto italico che mimava un mezzo qualsiasi che si apriva una strada tra i monti.

- Oh yes, sì, devo andare a Chiesa. Come si fa?
Il ragazzo lo accompagnò al sottopassaggio che portava alla stazione degli autobus e gli indicò la strada.
Il biondo trovò la biglietteria, riuscì in qualche modo a comprare il biglietto e scovò la corriera che faceva servizio fino a Chiesa e paesi limitrofi.
Finalmente salì.
Era praticamente vuota, con solo una manciata di altri viaggiatori, per lo più locali, che avevano riempito in ordine sparso tutta la parte anteriore del mezzo.
Percorse il corridoio centrale, con il suo zaino al seguito. L’autista a gesti gli aveva fatto capire che il bagaglio poteva portarselo con sé senza problemi. E di questo, lui, gli era stato infinitamente grato.

Percorrere quel corridoio fino a raggiungere la fila di sedili in fondo era stato come sfilare in passerella alla presentazione della collezione primavera-estate di qualche famosa casa di moda. Lui passava, tutti lo fissavano, tutti si giravano, fino a quando finalmente si sedette e ognuno tornò ai propri pensieri e alle proprie faccende, come se nulla fosse successo.
Solo una coppia anziana cominciò a confabulare, probabilmente chiedendosi chi fosse quello strano tizio, da dove arrivasse e dove fosse diretto.
Bevve qualcosa dalla borraccia, si asciugò il sudore, sistemò lo zaino, buttò un occhio al telefono e alle mappe per capire la strada e finalmente si rilassò sul sedile, abbandonandosi completamente.
Proprio in quel momento il motore si mise in moto, i vetri del pullman cominciarono a vibrare, i passeggeri ebbero tutti un sussulto simultaneo, sistemarono le spalle sul rispettivo schienale e le porte si chiusero con un leggero soffio.
L’autista cominciò con ampi movimenti ad abbracciare il gigantesco volante, lanciò nell’aria un suono di clacson di antica memoria, inserì la leva del cambio e cominciò la sua corsa abituale, direzione Valmalenco.

59.

La corriera non sbuffava più come una volta. E non faceva più quella fatica porca a salire.
Era confortevole: cambio automatico, aria condizionata, spazio per le gambe, monitor per le trasmissioni video, musica diffusa, colori sgargianti. Senza parlare degli ammortizzatori, veri materassi a molle sotto le terga degli utenti. E chi aveva qualche anno di più ricordava con terrore le vecchie corriere di decine di anni prima, in cui tra stomaco e fondo schiena non si riusciva a capire chi era più malandato quando la corsa era giunta al termine.
Il giovane straniero abbandonò il corpo, e la testa, alla ricerca di un po’ di pace e di relax.
Viaggiare in Italia non era proprio semplicissimo, pensava. Inglese parlato poco e male, indicazioni sempre complicate, tempi mai certi, costi sempre al di sopra dell’effettiva qualità del servizio, cambio della moneta non facilissimo. Almeno al di fuori di Milano, che aveva visitato per qualche giorno prima di ripartire per la valle e di cui si era innamorato a prima vista.
Ma c’era un ma, per fortuna.
Il tutto veniva, quasi sempre, controbilanciato dalla bellezza dei luoghi, dall’ottimo cibo, dal tempo spesso clemente. Insomma, da tutti quei luoghi comuni che facevano del Belpaese una delle mete preferite al mondo. E le montagne, per uno che arrivava da un mondo lontano da tutti i punti di vista, erano l’attrazione più ipnotica, che catturava i suoi occhi, continuamente.
Durante la risalita verso il paese, il giovane turista assaporava ogni curva, ogni casa che i suoi occhi incontravano, ogni frazione che incrociava.
Giù, all’inizio della valle viti e alberi da frutta la facevano da padrone. La Valtellina, la grande valle che ospita la Valmalenco, era famosa, e non solo in Italia, per le sue mele, dure e saporite. E poi i castagni. E i vigneti.
Staccandosi da Sondrio, svanivano gli alberi da frutta e cominciavano a comparire le betulle dai bianchi tronchi, e poi, sempre più in alto, il trionfo della flora alpina, tra abeti, larici e pini.
E uno scenario straordinario, là in fondo, con le catene montuose sempre innevate, che facevano da protezione alla valle e da divisione naturale verso il territorio elvetico.
Il pullman arrivò all’inizio del paese, preannunciato da uno strombazzamento petulante.
L’autista fece segno al giovane che poteva scendere proprio lì, indicandogli la vecchia chiesa che si parava di fronte, punto di partenza per accedere alla via principale e all’anima originale del paese.
Lui fece segno Ok! con indice e pollice, raccolse il suo zaino, attese con qualche apprensione che la vecchia signora davanti a lui scendesse gli scalini e si ritrovò finalmente in quel paese che tanto aveva cercato.
Respirò a tutti polmoni, allargando le braccia, e si annientò di fronte alla bellezza del Pizzo Scalino che gli si era parato davanti e che sembrava volerlo interrogare dalla sua cima, con un’unica domanda:

- E tu chi sei?

Lui si girò, ignorandolo, raccolse il suo pesante zaino, infilò gli spallacci, riempì la borraccia alla fontana che troneggiava nel bel mezzo della piazza tra la chiesa vecchia e l’entrata del centro servizi e della biblioteca del paese, e seguendo mentalmente le indicazioni dell’autista del bus che l’aveva portato in valle si incamminò, passando sotto l’arco che univa l’antica canonica alla chiesa.

60.

Il maresciallo se l’era presa comoda, anzi proprio rilassata.
Ottimo pranzo a casa a base di filetto che si tagliava come il burro; insalatina - condita con la giusta quantità d’olio e annaffiata, come piaceva a lui, di aceto balsamico - e un pizzico di sale; pezzo di formaggio locale molto giovane e una croccante mela del luogo. Il tutto coperto, avvolto e cullato da sontuose iniezioni di Sassella, uno dei rossi più famosi della zona. Caffè per gradire e zero spazio per qualsiasi tipo di dessert, almeno per salvare la faccia.
Il maresciallo, intendiamoci, si teneva in forma. Un po’ appesantito lo era, ma non di molto, e dipendeva esclusivamente dal fatto che abusasse della sua gola. E poi non era più un ragazzino!
Si conosceva benissimo. Se beveva un po’ di più e si lasciava trascinare molto in basso dai dolci - cosa che amava più di ogni altra - il corpo immediatamente si disponeva per assorbire, accogliere e sposare qualsiasi zucchero ingurgitato. E tutto andava là, nello stomaco basso come amava definirlo lui, scherzando - che poi in italiano si chiamava pancia.
Quando arrivava a un livello di allerta, di preoccupazione non solo di carattere estetico, ma anche di salute vera e propria, allora il maresciallo diventava un talebano, nello spazio di una giornata. Niente più dolci, pochissimo vino, zero formaggi, latte magro e pedalare, nel senso di muoversi il più possibile a piedi.

E quel giorno, finito il pranzo, proprio per sentirsi meno in colpa, decise di andare in caserma a piedi. In fondo era tutta discesa e l’unico pericolo era quello di rotolare a valle, causa vista annebbiata dal troppo vino bevuto. Al ritorno ci avrebbe pensato dopo.
La giornata era splendida, piena di sole e profumi. Le montagne circondavano il maresciallo come volessero coccolarlo, con l’obbiettivo unico e raro di renderlo sereno.

61.

Pandolfi, quel giorno, si sentiva proprio bene, tranquillo. Non c’erano guai all’orizzonte, la famiglia stava bene, e sua moglie aveva persino ripreso a lavorare da qualche settimana, cosa che la rendeva ancora più felice e appagata.
Ora che Giulia stava inesorabilmente crescendo e che aveva sempre meno bisogno di lei, ora che il Pandolfi sembrava aver raggiunto una sorta di stabilità geografica e di carriera, il maresciallo aveva notato che la moglie aveva ricominciato improvvisamente a parlargli del suo vecchio lavoro, della bellezza di essere al centro del dibattito culturale, di avere a che fare con scrittori e strategie editoriali.
E quando gli parlava di queste cose, quando gli raccontava del suo passato professionale, inesorabilmente, alla signora, brillavano gli occhi, come fosse in preda a un’euforia intellettuale, oltre che a una triste nostalgia.
Pandolfi era un uomo attento. Molto di più della media. Era sensibile, partecipava alla vita familiare in modo attivo, si occupava della figlia, e cercava di essere un buon marito.
Rispettava le regole d’ingaggio.
Si era accorto, il maresciallo, di questo cambiamento.

Un giorno, dopo che l’Epifania si era, come da copione, portata via tutte le feste, approfittando del momento di relax familiare, prese sua moglie, la fece sedere, la guardò negli occhi e con affetto le disse:

- Quando pensi di ricominciare a lavorare?

Lei restò di sasso. Era mesi che ci pensava, non sapeva come sistemare alcuni aspetti organizzativi, non sapeva come riavvicinare il suo antico mondo dei libri e non sapeva se era ancora in grado di fare il suo lavoro. E non sapeva come dirlo alla sua famiglia.
Negli anni si era tenuta sempre al passo con le evoluzioni del mondo editoriale, aveva come sempre ingurgitato libri come fossero noccioline, aveva scritto qualche articolo qua e là, ma riprendere a lavorare in pianta stabile sarebbe stato un’altra cosa.
Soprattutto, Elena, era preoccupata della reazione del marito. Lui non gli aveva mai imposto di rinunciare al suo lavoro in passato, ma ora che il ménage familiare era ormai consolidato, non riusciva a immaginare quale sarebbe stata la sua reazione.
Quando le fece quella domanda restò sorpresa per la sensibilità e per l’attenzione dell’uomo che si era accaparrato per la vita. E una volta di più si convinse della bontà della sua scelta.
Lo fissò per un attimo, stringendo le palpebre come se sospettasse una velata ironia nelle sue parole, e quando capì che il suo uomo parlava sul serio, gli si avvicinò e con dolcezza lo abbracciò e all’orecchio più vicino gli sussurrò, quasi non volesse farsi sentire da nessuno:

- Domani va bene?

Scoppiarono a ridere entrambi, fino alle lacrime.
E poi fu tutto rapidissimo.
Il giorno dopo chiamò il suo vecchio direttore editoriale - che ormai era diventato editore a tutti gli effetti, riprendendosi la casa editrice che in momenti difficili aveva dovuto cedere in parte - per vedere se c’erano spazi, se avevano bisogno, se ancora si ricordavano di lei…

- Elena? ma sei veramente tu? gli rispose subito il direttore.
Ormai erano anni che non si vedevano, che si scrivevano ogni tanto messaggi alle feste comandate. Era stata una scelta soprattutto del direttore che, attratto da sempre dalla sua bella collaboratrice, dopo il matrimonio della donna con il difensore della legge, e le relative dimissioni, aveva pensato bene di scomparire dalla sua vita dando un taglio netto. 

- Alex, come stai?
La conversazione continuò come se non si fosse mai interrotta in quegli anni, con quella confidenza e quell’intimità che solo le persone che si conoscono a memoria possono avere.
Ed Elena era quindi ‘scesa’ a Milano, aveva rivisto dopo tanto tempo gli uffici della casa editrice, in centro, in quel palazzo ottocentesco tanto elegante e dalle linee austere. Aveva incontrato il suo vecchio datore di lavoro, si erano confrontati a lungo, convenendo che tornare a lavorare insieme era l’unica cosa giusta da fare. Poi c’era stato il pranzo, nel consueto ristorante giapponese nel corso accanto, che avevano frequentato insieme nella loro vita precedente.
Davanti a un sushi e a una tempura, avevano raggiunto un accordo, non tanto economico - quello era il meno, come diceva Alex - ma di natura organizzativa e professionale, visto che Elena aveva escluso già nella sua prima telefonata, mettendolo in chiaro con forza, che non sarebbe tornata a vivere a Milano. Bisognava, se era possibile, esplorare forme diverse di collaborazione.

- Ok Elena, aveva detto l’uomo. - L’importante è che tu torni!
Elena, da quel giorno tornò a essere una delle collaboratrici più fidate e vicine all’editore, lavorando da casa e garantendo la sua presenza negli uffici milanesi nelle riunioni più importanti e nelle occasioni necessarie. La tecnologia avrebbe fatto il resto.
Quel giorno, tornando sui bricchi, su quel treno che la riportava a casa dopo quell’incontro, aveva vissuto un senso di profonda gratitudine verso quella vita che le stava dando tanto, tutto. E di assoluta felicità, mai provata prima. Un po’ se ne vergognava, ripensando a tutto il suo mondo, al suo matrimonio e alla nascita della figlia, eventi che avrebbero dovuto stare in cima alle sue preferenze. Quel giorno era felice come non mai, anche se non l’avrebbe confessato a nessuno, se non a se stessa.

62.

La primavera in Valmalenco è una bellissima donna, alta, un po’ austera, elegante... uno schianto.
Questo pensava Pandolfi, dopopranzo, scendendo a piedi come programmato, verso il centro del paese per raggiungere, poco sotto, l’ufficio.
Il maresciallo si riteneva una persona un po’ scontata, quando aveva pensieri come questi. In fondo la primavera era da sempre oggetto di riflessioni intellettuali, composizioni musicali che la osannavano, quadri, opere teatrali, film, libri e chissà che altro. E lui quindi, da sempre intellettualmente defilato e timoroso, con la sua uniforme, si sentiva un po’ un goffo e un intruso, uno che non poteva permettersi il lusso di troppi sogni, perdere tempo a inseguire le bellezze della natura e il rincorrersi delle stagioni. Doveva far rispettare le leggi, altro che balle!
Ma a volte, anzi sempre più spesso, alle balle cedeva, e volentieri.
Il verde delle pinete, che riempivano la valle in modo talvolta ossessivo, aveva una tonalità intensa, profonda e si stagliava, autorevole, sul cielo azzurro. Il sole scaldava ma non troppo, era luminoso ma non troppo e i tratti della strada in ombra aiutavano a stemperare il caldo, cosa che il maresciallo odiava più di ogni altra cosa.

Cominciò a scendere la strada principale, arrivò alla chiesa di Don Artemio, passò davanti al municipio e cascò nella via principale, la via dello shopping e dello struscio serale. Doveva girare a sinistra, per poi raggiungere la caserma all’incrocio successivo. Mentre gettava un’occhiata istintiva alla parte opposta, fu investito - nel vero senso della parola - da un energumeno, con zaino sulle spalle, che avanzava nella sua direzione pensando a chissà che cosa. Lo scontro fu inevitabile.
Il maresciallo fu travolto, quasi si ritrovò a gambe all’aria, lo zaino del ragazzo finì in mezzo alla strada e i due, quando tutto si fu fermato, si guardarono negli occhi.

- Sono spiacente, bofonchiò il giovane turista, - colpa mia! disse picchiandosi la mano sul petto, accennando un sorriso, imbarazzatissimo una volta buttata un’occhiata alla divisa.

Il maresciallo capì al volo che aveva avuto uno scontro di immani proporzioni con un alleato atlantico mandato in chissà quale missione. E in ottemperanza e rispetto al Patto e alla Nato, rispose che non c’era problema e che non era in fondo successo nulla.
 Stava per girarsi e riprendere il cammino verso l’ufficio quando il turista gli rivolse una domanda.


- Mi scusi, mi sa dire dove posso dormire? domandò mimando la testa sul cuscino, gesto che non conosceva frontiere.
Pandolfi, già innervosito per lo scontro, cominciò a ribollire. -
Ma per chi mi ha preso, questo acciugone, per un vigile urbano,? pensò tra sé e sé. - O per una guida turistica? Ora lo sistemo io.

E si girò con il chiaro intento di rispondergli a tono, ma il sorriso quasi infantile del ragazzo lo bloccò, provò per lui tenerezza, pensando che in fondo ‘noi italiani siamo brava gente’, sempre accoglienti, oltre che ficcanaso...

- Deve andare all’azienda di soggiorno. Là le daranno tutte le informazioni e potrà anche prenotare l’albergo, indicando la direzione da cui il ragazzo proveniva.
Lui lo guardò, con aria imbambolata, anche perché non aveva capito una vera mazza.

- Ok, come with me, rispose il maresciallo sfoderando il suo inglese. Stava cominciando a divertirsi.

Passarono dal BarCentro - davanti al quale erano schierati a fumare tutti i membri dell’associazione dei nullafacenti che non si erano persi neanche un attimo della scenetta dello scontro -, presero la parte bassa della via che si apriva in due rami e raggiunsero rapidamente il piazzale davanti alla chiesa vecchia dove troneggiava l’entrata che avrebbe portato, più in basso, alla sede dell’ufficio turistico locale.
Il maresciallo gli indicò le scale, lo presentò alla signora di turno all’ufficio informazioni, le spiegò il problema, tese la mano al turista, lo salutò caldamente, si girò e risalì le scale per riguadagnare l’uscita.

- Anche la guida turistica devo fare? si domandò sorridendo sotto i baffi.

Rifece la stessa strada a ritroso, proprio per il gusto un po’ sadico e masochistico di ripassare davanti al bar, che infatti trovò ancora più affollato di prima. Erano tutti in attesa di sapere, di chiedere, di analizzare, di indagare.
E appena li raggiunse, partì la domanda, da chi non si sa.
- Maresciallo, ma chi è quello là?
Lui manco si fermò, manco si girò, manco rispose. Si limitò a un marziale saluto militare (aveva il cappello, quindi…) in direzione dell’allegra congrega e tirò dritto per la sua strada, visto che non sapeva proprio nulla.

63.

Già non avevano nulla da fare e pensare, figuratevi quanto era il tempo da riempire in una stagione morta come quella, quanta aria doveva essere sprecata, quanta energia accumulata doveva essere scaricata.
Questa era la situazione al BarCentro.
E appena il giovane apollo alto come una pertica era passato davanti alla sede di tutte le chiacchiere per la seconda volta, addirittura insieme all’autorità costituita, le congetture, le supposizioni e le illazioni si sprecarono all’infinito.

- E quello, chi è?, azzardò subito il Monatti, quasi volesse fare il verso alla domanda che il Pizzo Scalino aveva già ‘sussurrato’ appena il ragazzo aveva messo il suo piede misura 44 sul suolo malenco. 

- Un parente del maresciallo?, rispose ironico il Riva, sfogliando il CentroValle alla ricerca di qualche succulenta notizia locale.

- Ma per piacere, rispose il Monatti. - Non è sicuramente suo genero, vista l’età della figlia, non è sicuramente italiano vista la stazza, non è sicuramente nemmeno un nuovo carabiniere appena arrivato in caserma.
Tutti seguirono la strana coppia avviarsi verso la chiesa vecchia, placidamente, accennando un difficile dialogo fatto di poche parole e di molti gesti.

- E non lo sta nemmeno arrestando, visto che vanno nella direzione opposta alla caserma e non vedo manette, concluse il farmacista grattandosi la pelata con vigore e con velenosa ironia.
Il dibattito cessò lasciando spazio a qualche altro fatto che era avvenuto e che aveva necessità di essere approfondito.
Solo il Mambelli continuò a seguire la coppia con lo sguardo, anche perché quel viso lì, di quel giovane virgulto tutto gambe e muscoli, gli ricordava qualcuno.
Era proprietario dell’unica farmacia del paese da sempre, probabilmente da quando l’uomo ancora coperto di pelli di dinosauro e dall’eloquio ancora gutturale aveva cominciato a colonizzare la valle. E oggi, dopo decenni di onesto lavoro, aveva cominciato a passare la palla alla figlia, che laureatasi da un anno circa, aveva iniziato a occuparsi della farmacia stessa, anche se sotto lo sguardo attento e rassicurante del padre.
E allora? Allora conosceva tutti, conosceva quelli morti, quelli vivi, quelli che nascevano e quelli, soprattutto quelli, che si ammalavano. Una sorta di archivio vivente, un po’ come Don Artemio e i vecchi del paese.
Ma lui di più, anche perché da lui, prima o poi, passavano tutti, ma proprio tutti.

- Chel lì, quello lì mi ricorda qualcuno, continuava a ripetersi nella testa. Poi gli altri lo richiamarono, per una scopa, per delle chiacchiere o per allungarsi reciprocamente un bicchiere, e tutto sfumò lì.

64.

Maggio era bellissimo, tempo stupendo, non ancora caldo, belle giornate, tutto in fiore e praticamente zero turisti. La valle si animava nei weekend per l’arrivo di qualche proprietario di seconda casa - pochi - che amava quel periodo lontano dalla infernale stagione sciistica e ancora a distanza di sicurezza dal grande caos estivo.
Quindi? Quindi, la maggior parte degli alberghi era chiuso e gli albergatori sfruttavano quei mesi, in alternativa, per:
Fare manutenzione o lavori di ammodernamento
Andare in vacanza
Riposare menti e ossa

Così rispose, in un buon inglese, l’ufficio turistico del paese al visitatore - che si era dichiarato australiano - appena arrivato in paese.
Un albergo però era aperto, anche se a ranghi ridotti: l’albergo Paradiso, più in su, in fondo al paese. 

- Paradiso is Paradise in English? I like it. Ok per me, concluse.
La signora Rina telefonò subito alla Silvana, la informò, si fece confermare che il signore avrebbe potuto dormire da lei, diede al giovane straniero l’indirizzo, gli fece vedere sulla mappa del paese il percorso e lo congedò con un benaugurante ‘Have a nice day!’ che diede fiducia al ragazzo.
Il giovane uscì dall’ufficio turistico. Guardò ancora una volta la valle vero Sondrio, chiusa dalle alpi orobiche ancora tutte innevate.
- Mi piace questo posto.
S’incamminò, ripassò davanti al bar, non si accorse delle occhiate indagatrici di alcuni dei suoi frequentatori, arrivò all’incrocio dove aveva avuto lo scontro con quel carabiniere, e avanzò velocemente, cartina alla mano, per raggiungere l’hotel. Ne aveva da camminare, non era vicinissimo, ma era bello passeggiare, guardarsi intorno, essere dall’altra parte del mondo, libero e senza pensieri.
Almeno oggi...

65.

La Silvana si agitò per l’arrivo imminente del nuovo cliente.
Aveva ospiti, in quel momento, un piccolo gruppo di anziani che sarebbero rimasti da lei fino alla fine della settimana, una coppia di svizzeri tedeschi che passavano le loro vacanze in giro per l’Italia e una coppia di uomini che erano a Chiesa per lavoro e che se ne sarebbero andati il giorno dopo.
C’era un insolito movimento, quel mese, aldilà dei weekend. E le prenotazioni rendevano profittevoli anche le settimane a venire.
E ora il giovane australiano, come l’aveva informata la signora Rina dell’ufficio turistico.
Un australiano...non era certo l’etnia turistica più rappresentata in valle. Durante la stagione invernale e sciistica gli stranieri erano svizzeri, francesi, tedeschi, inglesi e belgi e olandesi. In estate il turismo era soprattutto italiano, e italiano vuol dire soprattutto lombardo e un po’ emiliano. Più in giù era molto difficile.
Come si sarebbero compresi? Silvana parlava un discreto tedesco, si faceva capire in francese, ma l’inglese no, quello proprio non lo conosceva. Anche se ai giorni nostri, era l’unica lingua straniera che veramente serviva.
Ma tant’è. La proprietaria dell’albergo preparò la camera, con vista valle e balconcino, lasciò sul tavolino anche una invitante bottiglia di vino e un paio di dolcetti locali come regalo di benvenuto.
Poi si mise fuori dall’albergo in attesa del suo illustre ospite.
E nell’attesa approfittò, chiamò il suo uomo lontano, si fa per dire, nella bassa valle.

- Berardi, come va?

- Amore mio, tutto a posto. Domani ti raggiungo, finalmente. Appena dopo pranzo. E così stiamo insieme fino a domenica. Un sogno.

- Sì certo, bellissimo, lo condì via. E aggiunse,
- Ti chiamavo per dirti che sto aspettando che mi raggiunga un nuovo cliente, un australiano. Non ti sembra incredibile? Arriva dall’altra parte del mondo. Chissà come mai dall’Australia uno arriva fino a questo paese ai confini?

- Australia? Ma è il mio mito. E com’è?, replicò Berardi.

- L’Australia? E che ne so, mai vista.

- Ma no, com’è lui. Giovane, vecchio, alto, basso, simpatico?

Silvana era una donna gelosa. Non una gelosia smodata e fuori luogo, ma comunque convintamente possessiva. Ne aveva passate tante e ora si teneva stretta la serenità acquisita.
Da quando frequentava Berardi, sapendolo spesso solo a Morbegno o chissà dove, generava nella donna l’ansia di perderlo.
Non era mancanza di fiducia. Ma si sa, la gelosia era per definizione irrazionale, quindi...
- Quando mi ha telefonato la Rita dell’azienda autonoma di soggiorno, poco più di un’ora fa, per chiedermi se avevo una camera libera, mi ha detto che è un bellissimo ragazzo, che non arriva ai trenta. Alto, biondo, forte e pieno di fascino, concluse per la gioia del suo innamorato.
Era proprio una voglia adolescenziale di stuzzicare, di ingelosire, di attirare l’attenzione. Si sentiva già meglio mentre gli sciorinava questa descrizione, anche se con una punta di senso di colpa. Ma il gioco le piaceva.

Berardi però cominciava ormai a conoscerla, sempre di più.
Tirò un sospiro per ossigenare al meglio le cellule celebrali e le rispose in modo impeccabile.

- E meno male, sempre anziani, o gruppi familiari con bambini moccolosi e urlanti. Finalmente potrai dilettarti con un giovane affascinante e seducente, che ti strapperà il cuore dal petto e ti porterà in Australia per vivere una nuova vita tra sole, ricchezze e felicità, dimenticandoti di me una volta per sempre. 

- Che scemo che sei, gli sussurrò al telefono. Comunque farò così. Ci vediamo a Sidney quando verrai a trovarmi, ok? Intanto, però, ti aspetto stasera. E mentre confezionava quella risposta, vide arrancare dalla strada che arrivava dal centro del paese il suo nuovo cliente.

66.

Il giovane dell’emisfero australe camminava veloce.
Passò davanti al vecchio albergo in pietra, prese la via bassa al bivio e si incamminò rapidamente.
Ormai la strada era tutta in piano, stretta tra case basse, a volte alte, a volte dall’architettura antica, a volte dal disegno moderno o semplicemente modernista. Quella parte del paese sembrava un’esplosione di stili e di età, di gran caos edilizio di epoca passata e di un chiaro tentativo, oggi, di mettere un po’ d’ordine.
La montagna davanti, che sembrava altissima, con la sua ferita geologica a metà della parete, dava un senso di sicurezza, di protezione al paese, mentre a destra il Pizzo governava, con piglio reale, tutte le montagne intorno, dando ordini severi quando era necessario e accarezzando quando la situazione lo richiedeva.
Il giovane australiano non era abituato a quelle altezze, a quelle strutture naturali incombenti e austere. Aveva sempre vissuto su una terra infinita, spaziosa, orizzontale.
Mentre cominciava ad arrancare e a sudare per la strada che aveva ripreso a essere ripida, ripensò alla sua terra e alla sua vita, lontana centinaia di migliaia di chilometri.
Ma soprattutto ripensò, con le lacrime che gli velarono gli occhi, a sua madre, che da poco lo aveva lasciato e che in quel luogo, forse senza volerlo, lo aveva condotto.
Passò il ponte che permetteva di superare il Mallero, buttò un occhio alla struttura gigantesca e un po’ invasiva della stazione di partenza della funivia, mantenne la sinistra e s’inerpicò ancora di più.
Lo zaino cominciava a pesare sulle spalle. Era ormai pomeriggio inoltrato e la giornata, iniziata prestissimo, cominciava a presentare il conto al corpo del giovane viaggiatore.
Vide a quel punto l’albergo, un piccolo edificio sulla curva, che lo aspettava. Hotel Paradiso, troneggiava sul tetto la scritta. Ma in particolare, davanti all’entrata, vide una donna affascinante alle prese con una telefonata tutta gesti e voce alta, che quando lo vide avvicinarsi si bloccò all’istante, fissandolo, e interrompendo velocemente la conversazione.
Lei lo squadrò da lontano, senza muoversi, con le braccia conserte e con un piede appoggiato sul muretto basso che delimitava la proprietà dalla strada pubblica.

- Madonna santa, ma quanto è bello? pensò tra sé e sé, godendosi la vista e pregustando qualche chiacchiera ravvicinata durante la permanenza nel suo albergo.
Istintivamente si lisciò il davanti, come se volesse sistemare un abito stropicciato non adeguato all’incontro.
L’ospite arrivò, sbuffando come un mantice, si appoggiò al muretto davanti all’albergo, scaraventò lo zaino a terra con un respiro di sollievo, sollevò gli occhi e salutò la signora che lo stava osservando tra ammirata e divertita.

- Benarrivato mister, come va?, gli domandò con il più cordiale dei sorrisi.

- Ok grazie, solo un po’ stanco, le rispose una volta calmato il respiro. 

- Appena ripreso il fiato le mostro la camera, effettuiamo le registrazioni e poi vediamo cosa fare per la cena. Immagino sia affamato.
In quel momento il giovane viaggiatore realizzò che era dalla mattina che non inghiottiva nulla, tranne l’acqua che aveva raccolto dalle varie fontane nel tragitto, e alcuni biscotti che aveva comprato in stazione a Milano prima che il treno lasciasse la Centrale. E un crampo allo stomaco gli confermò che era bene correre presto ai ripari.
Silvana gli fece strada, attraversò la piccola hall e grazie all’ascensore raggiunse in pochi passi la camera.
Lui entrò, diffidente, gettò una rapida occhiata alla camera senza quasi vederla e depositò delicatamente lo zaino a terra. Era buio, o quasi.
Ma quando Silvana, con un gesto teatrale ben studiato aprì le imposte della porta finestra, la dolce luce rossa del primo tramonto invase la stanza, rivelando un arredamento rustico ma raffinato e soprattutto mostrando un piccolo balcone che permetteva all’ospite di abbracciare con un solo sguardo tutta la valle.
Il rumore del fiume che solcava la valle riempiva il silenzio, il dolce vento che si era alzato con l’arrivo della sera accarezzava le punte degli alberi cullandoli dolcemente come volesse addormentarli in vista della notte, gli uccelli volavano basso lanciando suoni di conforto ai piccoli in attesa di cibo nei nidi. Era un paradiso, proprio come il nome dell’albergo.
Restò incantato, e con il viso solcato da un sorriso di compiacimento si avvicinò al balcone per vivere quella sensazione di pace. Ecco cos’è il nirvana, pensò con un po’ d’enfasi.
Silvana, sorniona, lo stava osservando, consapevole che quei gesti andavano sempre a colpire l’animo e l’immaginazione dei suoi ospiti, in particolare per quelli che venivano da lontano.

- Se vuole rinfrescarsi un po’ e sistemare le sue cose, io la posso aspettare giù in reception. La cena si serve alle 19,30. Se scende qualche minuto prima e mi lascia i documenti sistemiamo anche gli obblighi di legge. Va bene?
Lui si stagliava contro la finestra, illuminato in parte dalla luce sempre più tenue del sole. Annuì, sperando di avere compreso tutto in modo corretto e si voltò di nuovo verso la valle per godersi quegli ultimi attimi di tramonto.
Lei sorrise e uscì dalla stanza. Mai avuto un ospite così affascinante, pensò mentre scendeva dalle scale per raggiungere il personale di servizio in cucina e cominciare a organizzare la serata per i suoi ospiti.

67.

Su al cantiere della piscina, l’inverno, duro come sempre, aveva impedito alcune realizzazioni, i trasporti erano diventati difficili e quindi, come da previsione del Berardi, il cantiere avrebbe avuto qualche mese di rallentamento se non di vera e propria pausa.
Questo aveva permesso al titolare della EdilMorb di spostare buona parte della squadra che lavorava in Valmalenco su un lavoro che stava seguendo vicino a Varenna, sul lago di Lecco, e che, grazie a quello spostamento di personale, si sarebbe concluso felicemente, addirittura in anticipo.
Gli accordi con il condominio malenco erano per un lavoro a regola d’arte e di una consegna entro la metà di luglio di quell’anno, in modo che gli ospiti potessero usufruire della struttura a partire dalle vacanze estive. Una meraviglia per i condomini che così potevano riposare le loro povere membra, tessere relazioni con un'asciugamani intorno alle loro panze smisurate e sentirsi ancora più importanti di quanto già ritenessero di esserlo.
La piscina, cioè la vasca, era ormai conclusa, gli spogliatoi anche, mancavano le parti comuni e il collegamento interno con il residence. Soprattutto mancava buona parte del centro termale che aveva qualche criticità in più dal punto di vista impiantistico.
Il Berardi aveva passato una serata d’inferno con la Silvana, che gli aveva fatto una testa come un pallone raccontandogli del nuovo arrivato, di quanto era bello, di quanto era bravo, di quanto era gentile, di quanto era simpatico e di quanto era interessante.
Quella mattina si era svegliato quindi di pessimo umore, irritato, con la gelosia nel cuore.
Aveva evitato di proposito qualsiasi contatto con la sua beneamata - non voleva litigare! - aveva saltato la colazione in stile internazionale nonostante i solleciti bevendo solo un caffè, aveva impugnato le chiavi della macchina e nervosetto era volato dall’altra parte del paese per andare a supervisionare i lavori.
L’obiettivo era chiaro: scassare i maroni ai manovali, metter loro una fretta del diavolo, sistemare qualche aspetto organizzativo che pareva non funzionare e soprattutto sfogarsi con il mondo intero.
- Allora, come vanno le cose qui?, urlò irrompendo letteralmente nel locale dove tutti stavano lavorando. - Si lavora o si batte la fiacca, eh?
Tutti si voltarono, bloccandosi sul posto. Chi con la faccia da ebete, chi con un attrezzo a mezz’aria, chi con un sorriso forzato sul viso, chi con l’espressione che sembrava chiedere ‘ma perché non vai a rompere l’anima da un’altra parte?’.
Gli si fece incontro il fidato capocantiere che con fare amichevole gli allungò la mano per una stretta di saluto, gesto che il Berardi ignorò ostentatamente, puntando gli occhi sopra la spalla del suo collaboratore.

- Ogni volta che vengo qui, per la miseria, siamo sempre allo stesso punto?, gridò con antipatia studiata, facendo una panoramica a trecentosessanta gradi con lo sguardo.
Inutile, ora voleva proprio litigare, voleva cacciare dalla sua testa la differenza d’età con il giovane, la sua goffaggine provinciale contro il fascino internazionale del ragazzo australiano. E più prendeva parte a questa lotta - tutta dentro se stesso - più si rendeva conto di quanto fosse ridicolo, e più se ne rendeva conto e più diventava aggressivo verso il prossimo innocente e ignaro di tutto.
Insomma stava facendo la figura del fesso. Ma voleva andare fino in fondo, arrivando a fare la figura del totale pirla. Oggi buttava così.
Tutti abbassarono gli occhi, senza capire cosa stesse accadendo, pensando contemporaneamente che la grana doveva sorbirsela, e risolverla, il capocantiere, che era pagato di più anche per queste ruolo di anello di congiunzione tra il padrone e le maestranze.

- Ma no capo, siamo a buon punto e…, esordì l’uomo, cercando di rabbonire il suo datore di lavoro. Venne interrotto da una secchiata di parole, per nulla gentili.
Il Berardi era un fiume in piena, senza argini, senza controllo. Fosse stato per lui in quel momento, tutto era uno schifo, bisognava buttare giù tutto, bisognava licenziare tutti ‘perché nessuno sapeva più lavorare ormai, giovani del menga incapaci e sempre con il culo al caldo…’ e cosi via, alla ricerca del più comune dei luoghi comuni.
Anche il suo fido alter ego, a questo punto, aveva desistito dall’interromperlo o, peggio, di cercare di farlo ragionare, e lo fissava come se stesse assistendo a un documentario sugli ospiti delle antiche case per il recupero mentale.
Berardi, mentre pontificava, chiaramente percepiva che la rabbia stava piano piano sbollendo, e che la figura da pirla era ormai un obiettivo pressoché raggiunto.
Si zittì improvvisamente, incassò le spalle, sembrò quasi diventare più piccolo, si girò e giunto sulla soglia della porta che gli permetteva di fuggire all’esterno si voltò, e rivolgendosi a tutti sentenziò un - Vabbè, buon lavoro a tutti, e uscì il più rapidamente possibile.

Il suo vice lo rincorse, per cercare di capire, lui lo liquidò con delle scuse con metà delle labbra, e con l’altra metà rassicurandolo che tutto andava bene e che doveva lavorare così sempre.
Gli rifilò una fugace pacca sulla spalla, lo guardò negli occhi per un secondo e se ne andò definitivamente.

68.

La Silvana era innocente, povera. Almeno al novanta per cento.
Era solo rimasta abbagliata dalla bellezza del ragazzo e aveva colto la palla al balzo per stuzzicare il suo uomo, che amava sopra ogni cosa nella vita. Era un gioco, nulla più.
Il giovane viaggiatore che arrivava dal continente australe, dopo essersi sistemato nella camera, fatto una doccia e mandato qualche messaggio là in fondo al mondo, era sceso con lo stomaco che urlava ‘famefamefame’, non dimenticando di passare dalla reception per lasciare i documenti.

Silvana, dietro al bancone alle prese con il computer, lo sentì scendere, si sistemò i capelli al volo, sfoggiò il suo più lucente sorriso e lo invitò alla registrazione.

- Se mi dice lei il suo nome e il suo cognome e indirizzo, e il numero del documento, le posso lasciare il passaporto, in modo che possa girare per il paese con un documento in tasca. Non si sa mai, di questi tempi…

Lui aveva capito, anche se non tutto, e aveva obbedito, declinando lentamente.

- Mi chiamo Romeo Junior Hammitt, e gli fece lo spelling, metà in italiano e metà in inglese, cosa che contribuì a complicare le cose, fino a quando avevano deciso che lei avrebbe letto direttamente i dati.
- Vivo in Australia, a Sidney, you know?


- Ah l’Australia, un sogno, lontano e irraggiungibile. Romeo è un nome italiano, sancì con sagacia la Silvana, senza però trarre alcuna conclusione.
Lui aveva evitato di rispondere, aveva sorriso gentilmente e si era voltato verso la sala da pranzo che cominciava a popolarsi.

- Ha fame, vero? Stasera abbiamo un menù un po’ diverso dal solito. Qualche primo classico italiano - pasta o riso, come vuole - ma di secondo trote, direttamente dal torrente che ci scorre sotto il naso, aveva spiattellato la Silvana, con l’aria del venditore di pentole in tv e cercando di fare la simpatica. - Trote alla griglia, con verdure di contorno, e un dolce straordinario a base di noci.
Gli brillarono gli occhi. A quel punto la fame doveva essere placata, anche con una certa velocità.
Aveva subito raggiunto il grande ambiente che fungeva da sala da pranzo. Pochi tavoli erano apparecchiati, e tra questi solo il suo non era ancora occupato.
Gli altri ospiti, già con tovagliolo intorno al collo e gambe rigorosamente infilate sotto i tavoli, si erano voltati a guardare il nuovo ospite che, preso in consegna dalla cameriera di turno, veniva condotto al suo posto solitario vicino a una delle grandi finestre. Silvana gli aveva riservato il posto migliore, in modo che potesse godere dello scenario delle montagne, anche se di lì a poco sarebbe calata l’oscurità. Ma soprattutto perché tutti potessero godere della sua di vista.

Aveva preso posto. Aveva ordinato un piatto di pasta al pomodoro per primo e nell’attesa aveva preso a smanettare al cellulare, scrivendo qualcosa a qualcuno, leggendo qualche notizia e cercando di capire che tempo avrebbe trovato la mattina dopo al suo risveglio.
In testa, aveva un programma fitto e articolato e con un clima favorevole tutto sarebbe stato più piacevole.
Quando cominciarono ad alternarsi i piatti della cena - Silvana aveva dato disposizioni di concedere bis o tris, a suo piacimento - il bel Romeo aveva smesso di pensare, di occuparsi del suo telefono e di guardare fuori dalla finestra, abbandonandosi completamente a quella sequenza di sensazioni e di godimenti fisici che i sapori delle diverse pietanze gli facevano provare.
Il vino faceva la sua parte, rendendo tutto più squisitamente inebriante.
Aveva finito, a un certo punto. Dopo la seconda fetta di torta arrivò finalmente il caffè, quello strano espresso a cui non si era mai abituato, neanche a casa sua. Ma chissà come mai, quella sera, lo aveva apprezzato, e molto, alla faccia della brodaglia a cui era abituato nel suo paese.

Poi c’erano stati dieci minuti di chiacchiere con la Silvana, invidiata dalle due cameriere che, andando avanti e indietro tra cucina e salone, sbirciavano in continuazione i due che parlavano fitto fitto accomodati su uno dei divani del living room, come se fossero vecchi amici.
In realtà Romeo aveva chiesto qualche indicazione per fare qualche gita ‘in alto’, come diceva lui.
E lei gli aveva decantato la bellezza delle passeggiate che si potevano fare in valle, dalle diverse difficoltà e lunghezze, a seconda del suo allenamento e dalla voglia.
E la Silvana si era un po’ persa nel parlare con quel ragazzo, simpatico e gentile.
Tutte sensazioni che aveva, forzando anche un po’ il racconto, condiviso con il Berardi nella serata, al suo arrivo. E che l’avevano fatto andare in bestia.

69.

Al BarCentro le chiacchiere a vuoto sul nuovo arrivato si sprecavano.

- Dorme dalla Silvana, dice uno.

- Bisogna farsi dire chi è, rincara un altro.

- La Silvana lo saprà sicuramente, dice un altro ancora

- Oppure il Berardi. Appena lo vediamo in giro glielo chiediamo, conclude un altro.

Ecco, il paese vuole conoscere. Il paese non può essere all’oscuro. E la gente deve sapere.
E quindi si scatenò la caccia all’identità del visitatore, del perché era qui - non poteva essere solo turismo, era evidente - di cosa voleva.

- Secondo me quello lì è qui perché deve fare una ricerca dell’università. L’età ce l’ha, del laureando o del ricercatore, propose il Mambelli, l’unico laureato e quindi con l’università sempre in testa. - Probabilmente sta preparando la tesi, chessò in geologia, oppure in storia, oppure in agraria. O magari in architettura. Una volta avevo conosciuto una studentessa che si stava laureando al Politecnico di Milano e che stava preparando una tesi sull’architettura e sulle tecniche di costruzione di edifici contadini in Valtellina. Diceva che le costruzioni, tipicamente in pietra, che abbiamo qui non ci sono da nessuna altra parte nelle Alpi.
Gli altri lo guardarono un po’ perplessi.
La tesi del turismo non la sollevò nessuno, mentre quella, un po’ misteriosa, che avesse una vera e propria missione da compiere aveva preso piede e, parliamoci chiaro, era quella che scatenava più facilmente fantasia, pettegolezzi, intrighi di corte e malelingue biforcute.
Sicuramente, convenivano tutti, non era qui per caso.
- Ha qualche cosa da fare qui. Deve vedere qualcuno, deve scoprire qualcosa. Uno non arriva da chissà dove a Chiesa in Valmalenco senza un motivo specifico. Mica siamo Courmayeur o St. Moritz o Aspen, chiosò il Monatti, mostrando un’inaspettata conoscenza geografica del bel mondo. - E non siamo in un momento di flusso turistico.

- Sarà, rispose l’eterno scettico, il ‘giornalista’. - L’unico modo per sapere qualcosa è chiedere all’albergo Paradiso oppure all’azienda di soggiorno. La signora Rina forse sa qualcosa.
E come se qualcuno avesse dato un comando, tutti si alzarono per lanciare una nuova campagna conoscitiva e investigativa tra i confini comunali. Ma soprattutto perché era quasi la ‘mezza’ e per ragionare così finemente il corpo aveva bisogno di carburante.

Si lasciarono con il solito appuntamento, mai definito e mai scritto, nella seconda parte del pomeriggio, dopo lauto pranzo, grandi annaffiate e sonnellino corroborante. Freschi come rose.

70.

Anche il maresciallo era curioso.
Il giorno dopo lo scontro con il turista, una volta appurato che aveva preso una stanza all’hotel Paradiso, fece un giro da quelle parti.
Era un suo dovere, intendiamoci. Se in medicina ‘prevenire è meglio che curare’, nell’ordine pubblico, come amava sempre ripetere Pandolfi, ‘ficcare il naso prima è meglio che farselo spaccare dopo’.
Quindi si avvicinò all’hotel a piedi, lemme lemme, come se stesse facendo una camminata domenicale, in totale libertà.
Erano le quattro del pomeriggio e faceva caldo. Ecco la scusa, pensò il maresciallo. Fa caldo, ho bisogno di bere qualcosa.
Entrò nell’albergo: deserto.
Si schiarì la gola: neanche un rumore.
Alla reception nessuno si avvicinò alla living room, per vedere se qualcuno, ospite o non ospite, fosse seduto a leggere o a dormire.

- Maresciallo, che ci fa qui?
Fece un balzo per lo spavento, si girò di colpo e si trovò davanti la Silvana, in tutto il suo splendore.

- Porca miseria Silvana, mi vuole far morire? le domandò decisamente risentito.

- Non è mia intenzione. È che lei entra come un gatto senza farsi sentire e anch’io mi spavento. Tutto bene? La famiglia? Posso esserle utile?
Una sequela di domande, tipico atteggiamento della Silvana, a metà tra l’ansioso e la genuina disponibilità a collaborare, con tutti.

- La famiglia va bene, grazie, io sto bene e sì, mi può aiutare. Sto morendo di sete, di ritorno da un appuntamento qui vicino alla vecchia funivia. Il bar è aperto? Posso approfittare di una Coca Cola, Zero magari, e con una fetta di limone? Quando muoio di sete come ora, la Coca è straordinaria, meglio dell’acqua.
Lei lo guardò di sottecchi, abbassando un po' il viso e accentuando lo sguardo furbo e irriverente che la contraddistingueva.

- Ma certo maresciallo, venga al bar. Dar da bere agli assetati è una delle nostre missioni, o no? Tra l’altro, di là, possiamo parlare con più comodo, rispose canzonandosi del suo interlocutore.
Lui si sentiva in imbarazzo, anche perché aveva capito benissimo che la Silvana aveva compreso perfettamente che il motivo di quella visita inaspettata non era bere ma sapere chissà cosa. Ma chissenefrega, pensò, l’importante è il risultato. Il suo lavoro era anche fatto di simulazioni e di teatro di strada.
Lui voleva sapere e punto.

La raggiunse nell’area bar dell’albergo. Era vuota.
Luci soffuse, pochi tavolini con un po’ di sedie sparse, qualche sgabello con gambe come trampoli intorno a punti d'appoggio altissimi, un paio di angoli arredati con piccoli divani. L’hotel Paradiso non era un grand hotel, ma aveva il suo stile e la sua classe, e metteva subito a proprio agio gli ospiti.
Il maresciallo si accomodò su uno dei trampoli, con una gamba però saldamente ancorata al terreno e l’altra appoggiata al sostegno sotto la seduta.
L’albergatrice arrivò con la Coca Zero, accompagnata da qualche biscotto secco che la pasticceria del paese di fronte regolarmente forniva all’albergo, con grande apprezzamento da parte di tutti gli ospiti.
Il maresciallo bevve una lunga sorsata. Si vedeva che apprezzava, allungò la mano verso i biscotti, ne brancò un paio, li fece scomparire alla velocità della luce nella sua bocca, gustò e alla fine ringraziò pure.

- Si figuri, rispose Silvana, che continuò a fissarlo, senza aggiungere altre parole, in posizione d’attesa.

- Ok, allora parlo io, si arrese Pandolfi. - Che mi dice del nuovo arrivato? Parlo del giovane turista, inglese o americano che sia, che ha preso una stanza qui da lei?
Una volta compreso il motivo della visita, Silvana si rilassò. Aveva sempre paura di un ritorno di polemiche e pettegolezzi sul suo rapporto con il Berardi, oppure di qualche problema causato da suo figlio.
- Che le devo dire? Bello è bello. Mi sembra una persona normale. Mi ha chiesto qualche indicazione per fare qualche giro in montagna, rifugi, cime, passi...nulla di più. Io non gli ho chiesto nulla. Spero che ci saranno altre occasioni per scambiare qualche parola, perché è sempre interessante sentire esperienze e racconti di mondi nuovi, lontani da questo buco di paese.
Pandolfi si fidava del fiuto della Silvana e quindi archiviò il caso. Accettò qualche altro biscotto, si fermò ancora un po’ per sapere come stavano figlio e il Berardi e come andava il business. Poi pagò, e dolcemente come era venuto, se ne uscì dall’albergo.
Era ormai a una decina di metri dall’albergo quando sentì la Silvana arrivare di corsa alle sue spalle.

- Che succede? le chiese.

- Nulla. Mi sono solo dimenticata di dirle che il ragazzo non è né inglese né americano. Viene da Sidney, Australia.

- Ah ok, grazie, rispose un po’ deluso il maresciallo, si aspettava chissà quale rivelazione… - Veramente lontano, chissà quante ore di volo. Un posto talmente lontano che quasi si pensa che non esista. Grazie mille ancora, arrivederci.
E riprese a camminare, direzione caserma e poi finalmente casa. 


71.

I lavori della piscina erano arrivati al punto più delicato.
Tutte le opere strutturali, murature, rivestimenti, caldane di ogni tipo, erano ormai completate. Ora si passava al completamento dell’impiantistica, ai test di funzionamento, alla verifica che sia il centro termale sia l’impianto all’avanguardia del riciclo dell’acqua funzionassero nel migliore dei modi.
In quel periodo Berardi era sempre presente in cantiere, per coordinare i suoi collaboratori e per seguire con altrettanta attenzione i tecnici esterni specializzati nell’impiantistica del centro termale. Evitando così inutili perdite di tempo e in modo da rispettare i tempi intermedi e di consegna finale. Il centro termale, e la piscina, ora si mostravano quasi al completo, ed erano più belli di qualsiasi immaginazione.

Dalla hall del residence, nella parte più nascosta, tramite una ripida scala, si poteva accedere al lungo corridoio sotterraneo che terminava contro un’elegantissima porta a vetri automatica, tramite la quale si accedeva al centro.
Nell’ultima riunione condominiale il dibattito, come sempre, era stato acceso e animato. Gli scettici continuavano a essere contro il progetto boicottando qualsiasi adattamento e variazione, anche se a costo zero, mentre gli entusiasti erano in fremente attesa di potersi buttare nell’acqua per una benefica nuotata a più di mille metri di altezza, per poi rigenerarsi nel bagno turco o nella sauna.
Nei weekend, dove anche in quella stagione di mezzo comunque qualcuno arrivava, c’era un via vai nel cantiere per vedere, controllare, valutare e fare domande.

In quei giorni in cui il Berardi era di ‘guardia’ al cantiere, arrivò improvvisamente anche Pandolfi, senza preannuncio. Aveva sentito che i lavori proseguivano con grande lena, che il risultato, se non ancora completato, meritava uno sguardo diretto. E quella mattina così fece: buttò l’occhio per curiosità.
Appena entrato, tutti lo guardarono come se fosse in visita ufficiale, volesse qualcosa, dovesse avviare chissà quale inchiesta o interrogare tutto e tutti. Erano entrati in una sorta di stato d’allerta.
Passò in rassegna, è il caso di dirlo, tutta la piscina, camminandoci intorno ed evitando con cura materiale e attrezzi abbandonati. Mentre camminava vicino agli operai al lavoro, li salutava con gentilezza, fermandosi a scambiare qualche battuta.
Da quella che sarebbe diventata la sauna sbucò il Berardi, solo perché aveva sentito qualcuno ridere e parlare ad alta voce, realizzando che i tipici rumori da cantiere si erano improvvisamente zittiti. Sbucò con il chiaro intento di rimbrottare i lavoratori che sembrava se la pigliassero comoda, facendo amabilmente salotto.
E si trovò davanti il maresciallo.

- Stia tranquillo Berardi, sono io che non li faccio lavorare, e solo per qualche minuto.

- Vabbè, vorrà dire che questi minuti li metto in conto a lei, va ben? rispose facendo lo spiritoso ma neanche troppo. - A cosa devo la sua visita? chiese immediatamente dopo.

- Ero solo curioso di vedere. In paese, tra le tante cose di cui si parla a vanvera, la piscina al Valtellina è l’unica cosa che viene taciuta. Forse non interessa, forse perché in fondo non è capitato nulla in questi mesi, forse perché proprio nessuno ha nulla da dire. E questo è un bel segno, non trova? Quindi, a maggior ragione, se tutto va bene, mi sono detto, vado a vedere una cosa bella e fatta bene e in piena sicurezza. Come in genere tutti i suoi lavori, Berardi.

Il capo dell’EdilMorb, avesse saputo come si facesse, sarebbe arrossito. Ma l’uomo non si scompose, ringraziò per l’attenzione del maresciallo e con un gesto silenzioso ma di chiara interpretazione, fece segno ai suoi di riprendere a lavorare, senza indugio. 

- Venga Maresciallo, le faccio vedere anche la parte del bagno turco, della sauna e dell’ambita zona relax. Io trovo tutto bellissimo e l’ho fatto io. E dal punto di vista dell’impiantistica è uno dei progetti più all’avanguardia nella zona alpina. Vedrà che un sacco di svizzeri e austriaci, da sempre i punti di riferimento in tema di salute e di cura del corpo in ambienti alpini, faranno la coda per conoscere tutte le innovazioni idrauliche e di controllo ambientale che abbiamo introdotto qui a Chiesa.
Pandolfi non capiva niente di tecnica, di impiantistica a vario titolo e di edilizia. A malapena riusciva a cambiare una lampadina quando era fulminata. Senza parlare di quando doveva montare i mobili Ikea. Una tragedia che metteva a dura prova anche le sue coronarie e le orecchie di chi gli stava intorno.
Ma era decisamente impressionato dalla bellezza degli ambienti, dal comfort che traspariva sebbene tutto fosse ancora per aria.
Chiacchierarono amabilmente intorno ai lavori, scherzarono sui committenti un po’ debordanti nelle continue richieste e si avviarono verso il lungo corridoio per raggiungere velocemente l’esterno.

- Scusi Berardi dell’irruzione. Ma è mia abitudine girare in valle, anche senza meta. Più si sta a contatto con la comunità più si capisce se sta accadendo qualcosa che non va. E allora si interviene prima, prima che scoppi un vero guaio, per quanto è possibile. E qui non ero mai stato, sapevo che tutto era a posto, ma era necessario che ci facessi un giro, per vedere con i miei occhi. E poi come le ho detto, ero curioso, molto. Complimenti, grande lavoro, concluse il Pandolfi azzardando una pacca sulla spalla del suo interlocutore.

- Grazie maresciallo, apprezzo molto, molto di più di quanto riesco a farle vedere.
Camminarono insieme per qualche metro, un po’ imbarazzati, la distanza che li separava dalla macchina con scritto Carabinieri sulla fiancata.
E a un certo punto il maresciallo si bloccò sul posto, con gli occhi fuori dalle orbite, picchiandosi una solenne e secca pacca sulla fronte.

- L’Australia, si ritrovò a urlare, di fronte a un Berardi che per reazione si voltò, come se l’Australia fosse lì dietro, tra i pini secolari e il maresciallo l’avesse, per un attimo, vista passare. - L’Australia, Berardi, l’Australia!!

72.

Quella mattina, Romeo jr capì subito che il tempo era splendido. Ancora a letto, con gli occhi impastati dal sonno notturno, guardò le strisce di luce di sole che si facevano largo tra le persiane della porta finestra, allineate sul pavimento.
Ormai era da qualche giorno che era ospite dell’albergo Paradiso, e aveva imparato a capire il tempo ancora prima di aprire le imposte. Era diventato una sorta di gioco-sfida con se stesso. E ormai non sbagliava quasi più.
Era presto, e dopo qualche giornata di pioggia che l’aveva costretto a rimanere in paese senza possibilità di vedere qualcosa intorno, finalmente capì che quella era la giornata giusta per una gita in alto e per perseguire uno degli obiettivi che si era prefissato.
Preparò lo zaino, ci infilò calzoni lunghi, ricambi vari, un pile, giacca a vento, un libro, e un’altra cosa che avrebbe tirato fuori solo lassù, in una sorta di rito che sognava di celebrare da prima della sua partenza da Sidney.

Scese in reception. La Silvana era già attiva e indaffarata come non mai. La sala era già apparecchiata per la colazione, anche se ancora nessuno degli ospiti aveva dato segnale di vita. Era il primo.
Salutò la proprietaria, che lo ricambiò con uno sguardo che avrebbe fatto tremare anche George Clooney.
Le si avvicinò, comunicandole la sua meta e chiedendole come avrebbe potuto trovare un passaggio, per raggiungere il punto di partenza dell’escursione.

- Bravo, ha scelto il rifugio Cristina. È un posto da sogno, le piacerà. Ed è fortunato. In questo periodo dell’anno in genere è chiuso - aggiunse - ma oggi il rifugio ha un’apertura straordinaria grazie ad alcuni lavori. Il gestore ha così approfittato per aprirlo a turisti e locali per una sorta di festa di tarda primavera o di quasi estate. Credo che ci sarà la folla lassù, ma non si preoccupi, il posto rimane lo stesso un incanto.

- Ok, perfect. Ma prima di camminare bisogna salire con un’auto o c’è un servizio di bus? Come arrivo al punto di partenza?
Il suo italiano migliorava ogni giorno di più, sciogliendo la lingua e soprattutto rilassando la mente. Le relazioni a quel punto erano salve.

- Faccio un paio di telefonate e la sistemo. Attenda qualche minuto...
Silvana si allontanò, inforcò il telefono della reception, formulò un numero, parlottò per qualche secondo e riagganciò, per riprendere la cornetta in mano subito dopo e comporre un altro numero.

La seconda telefonata durò un po’ di più, ma alla fine Silvana guardò trionfante il suo ospite per comunicargli che in poco più di mezz’ora si sarebbe dovuto trovare davanti alla stazione dei carabinieri, dove avrebbe trovato un gruppo di persone che, con tre macchine, sarebbe salito fino a dove la strada terminava, sotto le grandi dighe in fondo alla valle. C’era un posto libero e gli davano volentieri un passaggio. Lo stesso per il ritorno.
Romeo la guardò con un’espressione a metà tra il felice e il deluso. Silvana se ne accorse e capì al volo.
Non era un velato rimprovero a lei, ma semplicemente il giovane ragazzo non voleva sentirsi inguaiato e costretto da una compagnia forzata, che andava contro i suoi propositi.

- Non si preoccupi, ho detto loro che le danno un passaggio andata e ritorno, ma in mezzo è libero di volteggiare per i monti in perfetta solitudine e in totale autonomia.
Lui sorrise, grato. E sotto lo slancio entusiastico di gratitudine, la abbracciò e le fece fare una giravolta danzante sollevandola di cinquanta centimetri da terra.

- Ma che fa? Mi metta giù, giù, subito.
Lui arrossì, si scusò, prese lo zaino con una mano, se lo appoggiò sulla spalla, le sussurrò un suadente ‘a stasera’ e uscì, bloccandosi immediatamente.

- Scusi, ma dove sono i carabinieri?

- Sempre diritto, per la strada che scende, quando arriva al centro del paese vedrà poco sotto alla via principale, il palazzetto dello sport. La caserma è lì di fronte.

Partì in quarta, senza colazione, mangiandosi però la strada sotto i piedi, per la paura di arrivare in ritardo.

Continua a leggere, dal 26 maggio, da qui