Capitoli 46-56

46.

Don Artemio era combattuto. Era in conflitto con se stesso, era in pieno subbuglio con il suo inconscio e, perché no?, anche con l’establishment della Chiesa. Anche se la Chiesa stessa non ne sapeva proprio un bel nulla e sulla vicenda non aveva neanche aperto bocca.
Ma quello che aveva detto alla Silvana in quel secondo incontro, che ormai era diventato patrimonio condiviso in paese, gli rimbalzava in testa da giorni. E non perché non fosse d’accordo con se stesso, cosa che a volte poteva anche capitare, ma perché prima di quello scambio di vedute con la donna, non sapeva di avere quelle idee.
Intendiamoci, Don Artemio non era mica un uomo superficiale, e tanto meno un cialtrone. Sapeva benissimo tenere la barra al centro della sua condotta, prima religiosa e poi sociale. Aveva inoltre le idee chiarissime in testa e in tutti quegli anni di pellegrinaggio nelle vie del mondo, non aveva - quasi - mai avuto tentennamenti. Solo qualche piccolo sbandamento, più che altro di natura teologica, che lui aveva frettolosamente archiviato come ‘debolezze terrene’ di un povero peccatore e che aveva subito fatto sciogliere come neve al sole.
Ma questa volta, in questo scontro epico dentro se stesso, era rimasto straordinariamente meravigliato del pensiero, o meglio dell’opinione, che aveva espresso al termine dell’incontro/scontro con la Silvana. E le opinioni dei preti, a volte, sono sentenze, inappellabili.
Continuava a rimandare a mente quello che si erano detti. Lo recitava nella sua testa più volte al giorno, senza alcun pentimento, ma chiedendosi conto di quanto la sua lingua avesse partorito.

Facciamo un po’ d’ordine, però.
Dopo quell'incontro in cui i due si erano scontrati anche violentemente, in cui il curato se ne era andato lanciando una frase sibillina che trasudava speranza - lasciando inoltre la signora con un dubbio amletico, Don Artemio aveva fatto sbollire la tensione per qualche giorno, macerando tonaca e coscienza, per poi fare ritorno all’albergo della bella tenutaria, con altro spirito.
Lei lo aveva scorto scendere dalla parte alta del paese, mentre riordinava quel piccolo spazio che aveva davanti all’entrata della sua pensione, adiacente alla via di transito.
Lo seguiva e curava con la coda dell’occhio, anche se cercava di avere un’aria indifferente.
Lui si avvicinò, lei fece la falsa sorpresa nel vederlo, lui chiese di entrare, lei gli fece strada, lui si sedette sul divano della piccola hall, lei si prese una sedia per sedersi proprio di fronte e lui le prese le mani e cominciò a parlare, lentamente, ma con determinazione e soprattutto con formidabile chiarezza.
- Silvana, mi perdoni l’invasione, senza neanche un invito, cominciò il prode servitore della chiesa e in fondo anche del paese.
Lei lo guardò, annuendo, facendogli capire che non c’era alcun problema, ma che soprattutto andasse al sodo, senza tante balle.
- Dopo il nostro precedente incontro, in cui siamo anche venuti a uno scontro palese di vedute e, diciamo così, sui nostri principi morali, ci siamo lasciati dopo una sua arringa sulla forza dell’amore, sulla libertà di ognuno e sulla presunta volontà di un dio - il nostro dio, mi permetto di aggiungere, l’unico… - di immischiarsi nelle pene terrene di coppia. E sul suo paventato desiderio di impedire la felicità degli uomini, così, per sfizio, per un capriccio. Quasi stessimo parlando dell’Olimpo e dei dispetti che contrassegnano la mitologia dell’antica Grecia e dei suoi dei bizzosi.

Lei continuava a fissarlo, determinata, allineando tutti quei messaggi non verbali tipici di chi è sulla difensiva, di chi non è d’accordo e prima o poi sbotta come una bomba a miccia ritardata: braccia conserte, viso altero, occhi affilati come lame e gambe accavallate a chiusura di tutto. In fondo, voleva vedere dove sarebbe andato a parare. Decise di non dire proprio nulla, né con le labbra, né con il linguaggio del corpo. Rimase immobile, come una statua.
- Bene, proseguì Don Artemio comprendendo che la sua interlocutrice sarebbe stata in silenzio fino alla fine del suo intervento, - è ovvio che io non sia d’accordo con lei, e con le sue osservazioni che odorano di blasfemia.
Silvana cominciò ad agitarsi sulla sedia. Accettava tutto, ma proprio tutto tranne gli anatemi di stampo medievale e le minacce del clero tutto. Allargò le gambe in modo da chinarsi in avanti, aprì le braccia come se volesse prenderlo per il collo, pronta allo scatto.
- Non si allarmi, intervenne subito il reverendo. Non è questo che le volevo dire. Stia tranquilla Silvana, vengo in pace, ribadì stendendo il palmo davanti a sé, quasi in faccia alla donna, come se volesse fermarla.
Lei si tranquillizzò e tornò all’originale postura, più rilassata.
Il prete si alzò, come volesse preparare un lungo discorso, come volesse affrontare chissà quale arringa in un’aula di tribunale. In pratica fece un breve giro, stirò la schiena, si arruffò i capelli ormai completamente bianchi e di colpo si voltò verso la donna, cominciando a parlare.
- Io non posso che essere dalla sua parte, Silvana. Io non posso che essere d’accordo con lei. E farò di tutto, per quelli che sono i miei poteri, perché sia felice, insieme con il suo amato compagno, contro tutte le ipocrisie e le rigidità che in questo caso sono oltremodo ridicole.
Lei sbarrò gli occhi e aumentò, se possibile, la sua attenzione. E mentre ascoltava e guardava, un sottile e dolcissimo sorriso cominciò a disegnarsi sul suo volto.
- L’importante è che mettiamo fine all’escalation di voci e di cattiverie che girano in paese, e che possono diventare veleno puro e impossibili da controllare. Anche per proteggere il Massimo, che non ha proprio alcuna colpa. Ed è quello che farò nella prossima omelia, scegliendo un brano ad hoc del Vangelo, con un commento che non lascerà dubbi. Questa cosa va stroncata, per rispetto a voi, per un clima migliore in paese e per la mia serenità.
- E con questo ho finito, concluse tombale il parroco.
Lei lo guardò, e lo abbracciò. E lui si fece abbracciare, come un padre con una figlia. E in fondo lei era proprio una delle sue figlie, e tra quelle più amate.
Non si aspettava repliche, non si aspettava commenti, tanto meno domande.
E infatti, dopo l’abbraccio, lei non disse nulla tranne un sussurrato grazie, come commiato.

Don Artemio le sorrise, la salutò, girò i tacchi e se ne uscì, investito dal sole di mezzogiorno e accompagnato, dopo pochi passi, dallo scatenato suono delle campane che a metà della giornata davano il loro meglio.

47.

Quella settimana successe un po’ di tutto e il maresciallo e Berardi non si incontrarono, dopo l’appuntamento accarezzato in quella telefonata. E neppure quella dopo, che aveva visto bloccato l’imprenditore edile in quel di Morbegno per motivi professionali e non solo.
Viveva una vita molto intensa l’uomo, piena di impegni, di obblighi, di ore in auto, di telefono e documenti.
E anche di visite in ospedale, dove la povera moglie trascorreva la sua povera esistenza senza vita. Lui continuava ad andare a trovarla, in quella stanza all’ultimo piano dove si trovavano i casi senza speranze, e che la ospitava ancora nonostante le crescenti difficoltà e le pressioni ormai insostenibili.
Berardi, prima o poi, avrebbe dovuto trovare una soluzione alternativa. Ma non sapeva quale, aldilà dell’impegno economico che, per fortuna, era l’ultima delle preoccupazioni. Casa sua con un’infermiera? Una clinica privata? C’era altro?
Qualsiasi fosse la decisione, passava tutto attraverso ulteriori drammi interiori e sensi di colpa, attraverso una riorganizzazione della propria vita e quindi la messa in discussione del passato, del presente e del futuro. Senza dimenticare Silvana, che a questo punto aveva diritto a essere tenuta in considerazione.

Lui e il maresciallo, finalmente, si misero d’accordo.
Luogo dell’epico incontro L’Antico Ristorante, incastrato nel borgo vecchio di una frazione aldilà del Mallero e gentilmente ospitato in un’antica dimora di quasi cinquecento anni prima. Ristorante rinomato nella zona, che offriva il meglio della cucina locale, partendo da pizzoccheri, sciatt e salumi, passando per carni alla brace sublimi, per concludere con dolci fatti in casa a base di frutti di bosco o mele e crema pasticcera. Il tutto innaffiato dai migliori vini della valle.
Insomma, un vero sacrificio fermarsi in questo luogo, e i due astanti lo fecero volentieri.
Chiesero un tavolo un po’ riservato, in quelle stanze del ristorante quasi all’entrata, che erano di fatto gli ambienti ancora originari dell’antica dimora. Il giorno feriale aiutava inoltre a creare un’atmosfera familiare, visto il numero esiguo di clienti, tutti rigorosamente locali.
Il maresciallo salutò proprietaria, camerieri tutti e soprattutto lo chef, cordiale e sempre disponibile allo scambio di qualche battuta.
Il Berardi era guardingo.
Si sedettero. Il clima era caldo e accogliente, il tavolo sotto una finestra che aiutava a dare respiro, il rumore amico di piatti e posate era in lontananza, discreto.
- Allora Berardi, come sta? È un po’ di tempo che non ci facciamo una bella chiacchierata. Silvana, tutto a posto?
Il maresciallo, da uomo di mondo e soprattutto senza alcun tentennamento morale e bigotto, disapprovava le voci ostili al rapporto tra il bel Berardi e la sciura dell’albergo. E in qualsiasi occasione, pubblica o privata che fosse, manifestava le proprie opinioni con forza, difendendo la coppia e mandando letteralmente a quel paese chiunque si mettesse di traverso e che malignamente si opponesse all’unione. In questo era più libertario e dirompente di tanti tromboni professionisti della difesa dei diritti civili. Berardi lo sapeva e gli era grato.
- Beh, forse la vede più lei di me, gli rispose il Berardi, con una punta di rammarico. - E poi, con tutte queste voci in paese, tutte queste chiacchiere da beghine, abbiamo insieme deciso di rallentare i nostri incontri, in attesa che le acque si plachino.
- Me la permette una risposta franca e senza giro di parole? Anche se è in francese, spero che la comprenda lo stesso, gli disse il maresciallo, impugnando il menù alla ricerca di qualcosa di diverso dal solito, ben conscio comunque che avrebbe ordinato sempre le solite cose.
- Si figuri, sono un uomo di mondo, rispose il Berardi, aggiungendo un sorrisino ironico, perché aveva capito bene dove il maresciallo sarebbe andato a parare.
- Bene. Per me sono tutte stronzate belle e buone e lei dovrebbe mandare tutti a…

Il Berardi fermò il maresciallo buttandogli davanti al viso il palmo della sua mano destra, con un chiaro gesto di Alt!, Stop!.
- Ho capito, maresciallo, ho capito benissimo. So come la pensa, la ringrazio per il suo appoggio, non solo formale ma di sostanza, in paese. Ma purtroppo con questa comunità devo farci conto, devo convivere, e non solo per motivi di cuore. In fondo capisco che una parte del paese sia schierata ‘contro’, perché ancorata a schemi vecchi e superati, ma il resto del paese se non è d’accordo, è giustamente indifferente, perché come si direbbe in tribunale ‘il fatto non sussiste’. Si tratta veramente di lasciar passare un po’ di tempo e le cose si sistemeranno da sole.
Il maresciallo ammirava il buon senso del Berardi, la sua stretta logica pragmatica e, in fondo, lo invidiava anche un po’.
- Ma sì, in fondo ha ragione. Inutile impazzire contro l’ignoranza. Alla fine tutto passa, concluse il maresciallo scorrendo con il dito il menù e strizzando gli occhi visto, che come al solito, aveva dimenticato gli occhiali in ufficio, oppure a casa oppure chissà dove.
- Lei che prende? domandò.
- Mmmm, difficile scelta. O pizzoccheri, una sicurezza assoluta, oppure un risotto valtellinese, ma il menù richiede minimo due porzioni, non so se lei…
- Affare fatto, vada per il risotto. Due sciatt per antipasto e insalatina d’ordinanza ce li facciamo? Il solito Valtellina per annaffiare tutto?
- Via così, ok.
Il cameriere annotò tutto, portò pane, vino e acqua, i due si fecero un aperitivo con pane di segale e mezzo calice di rosso, con brindisi, e Berardi sciolse il ghiaccio chiedendo a Pandolfi cosa voleva sapere sul passato di Chiesa.
- Guardi questa. E tirò fuori dalla tasca interna della giacca della divisa la cartolina dal respiro australe.
Berardi se la rigirò tra le mani, prima guardò a lungo l’Opera di Sidney, alzò un sopracciglio, la girò e lesse destinatario e il testo. E la restituì al maresciallo.
Lo guardò con fare interrogativo, in attesa di un chiarimento.
- Non le dice nulla? Non le ricorda niente? domando Pandolfi.
- Dovrebbe?
- Non lo so, era una speranza più che altro.
- Forse è meglio che mi racconti tutta la storia, disse il Berardi, sistemandosi il tovagliolo sulle gambe per lasciare lo spazio al piatto di sciatt e all’insalata ormai in arrivo.
Cominciarono a muoversi posate, mascelle e bicchieri, che continuarono per un po’, fino a quando il Pandolfi si decise a cominciare.
- Questa cartolina l’ha trovata mia figlia, in pineta, un pomeriggio. E gli raccontò tutta la storia, rilessero insieme il testo, cercarono insieme di identificare il destinatario, si confrontarono.
- Secondo lei, a chi può essere stata indirizzata questa cartolina? E chi la firma? Le viene in mente qualcuno, quarant’anni fa, quando lei ne aveva? chiese al volo.
- Io avevo dieci anni, più o meno, vivevo su al Sasso.
La località Sasso era la frazione di Chiesa che comprendeva, e comprende tutt’ora, il Valtellina e la pineta. È la parte che domina il paese. Proprio dove viveva oggi il maresciallo. Un luogo ancora uguale a se stesso, bellissimo.
E continuò.
- Ero un ragazzino che andava a scuola e che passava la sua vita all’aperto alla ricerca di avventure. Quando non dovevo dare una mano in casa, visto che mia madre era maestra della scuola e quindi fino a pranzo non c’era mai. Mio fratello lavorava già all’Enel ed era fuori tutto il giorno. Mio padre lavorava, come molti in paese, alle cave di serpentino.
- Speravo che le venisse in mente qualcosa, commentò Pandolfi deluso.

Finirono gli sciatt, arrivarono i risotti, terminò il vino, se ne aggiunse un’altra caraffa, si concessero una scelta di formaggi locali dalle diverse stagionature, chiesero l’elenco dei dessert, optarono per una crostata ai mirtilli dalla pasta forte e saporita, ingurgitarono un caffè doppio a testa, per concludere il tutto con un genepì fatto in casa che aveva il compito di raccogliere tutto quel ben di dio e renderlo digeribile.
Si accasciarono sulle sedie, sfiniti da questa lotta degna di Masterchef, e si guardarono negli occhi, certamente soddisfatti.
- Potrei parlarne a mia madre, disse il Berardi indicando la cartolina, rimasta sul tavolo come se fosse un totem da onorare. - Lei ha memoria e ricordi sicuramente più affidabili dei miei, e potrebbe avere quell’intuizione che si aspettava da me. Insegnando conosceva quasi tutte le famiglie. Che dice? Si può fare?
Il maresciallo pensò che in fondo non ci sarebbe stato nulla di male, che non c’era alcun segreto, che non era un’indagine ufficiale, e che se la madre avesse parlato in giro la cosa non avrebbe comportato nulla di che.
- Va bene, gliela lascio. Non me la perda però! Appena fatto, me la rende, ok?
- Non si preoccupi, la faccio vedere il prima possibile a mia madre, una volta fatto la porto immediatamente a casa sua, gliela infilo direttamente nella casella della posta.
Il Berardi infondeva sempre fiducia, senso di responsabilità e grande affidabilità.
Ma questa volta però non mantenne le promesse.

48.

Giulia uscì da scuola, con il morale sempre più sotto le suole delle scarpe. O meglio degli scarponi, visto che quell’anno la neve sembrava volesse riprendersi quel ruolo che negli anni scorsi aveva un po’ perso: elemento climatico invernale di colore bianco che in montagna compare spesso e non se ne va che a primavera inoltrata.
Mattia ormai aveva rinunciato a tornare con lei, come faceva quasi tutti i giorni prima che il grande buio la avvolgesse. Quindi anche quel giorno prese a salire sola verso casa.
Era un continuo rimuginare.
- Ora arrivo a casa e glielo dico. No, non gli dico un bel niente. Ma se non glielo dico io, glielo dice quel ficcanaso del cantiere e sono finita. Uffa, che faccio?
Giulia arrivò al ponte del Ciciù, il torrente che attraversava il paese e che aveva un nome vero al posto di questo nato dal basso, che quasi nessuno ricordava. Dopo il ponte abbandonò la strada maestra e prese a salire la scorciatoia, che in pochi decine di metri l’avrebbe portata alla porta di casa sua.
Alzò il viso e vide suo padre, in giardino, che la aspettava, con i pugni appoggiati sui fianchi, come un novello duce.
- Ah già che è sabato. Mmmh, niente di buono, pensò.
Ma il maresciallo proprio in quel momento le fece un enorme sorriso, e cominciò a salutarla agitando il braccio destro e urlando un ben augurante ‘Ciaoooo Giuliaaa’.
Lei si distese e si convinse. Gli avrebbe detto tutto, adesso, ora.
E prese a correre in salita, come una pazza, per cascare tra le braccia sicure e protettive del papà.
Entrarono in casa e si diressero in cucina per il pranzo. La madre si era defilata, come da accordi, con una scusa.
E infatti Giulia chiese:
- La mamma non c’è?
- È andata in paese per una commissione, liquidò velocemente la questione il maresciallo.
Le riscaldò la pasta nel microonde, le versò dell’acqua, le porse il parmigiano, le tagliò il pane. E se avesse potuto avrebbe fatto altro, pur di rimandare ancora un po’ quel confronto che avrebbe rivelato chissà che cosa.
Lei cominciò a mangiare, svogliatamente, giocando più che altro con i fusilli al pomodoro che riempivano il piatto e che sembravano non finire mai.
- Insomma, pensò Pandolfi furente con se stesso, hai interrogato pericolosi criminali, hai affrontato momenti di grande tensione e pericolo, e hai paura a parlare con tua figlia? Penoso, si appellò, sei solo un penoso e pavido uomo senza nerbo.
Asciugò la pentola del sugo che aveva nel frattempo lavato, raccolse tutto il suo coraggio e si voltò, e prendendo una sedia si parò davanti alla figlia pronto a iniziare l’interrogatorio.
In quel momento si accorse che il viso di Giulia era rigato da enormi lacrime, e che la figlia lo stava guardando disperata, colma d’infantile tristezza.
- No, no Giulia, ma cosa ti sta succedendo? Girò attorno al tavolo per andare ad abbracciarla, per consolarla. - Qualsiasi cosa sia successo, la sistemeremo. Tua madre e io siamo dalla tua parte. Non ti preoccupare, amore mio.
E lei scoppiò in singhiozzi, si prese la testa tra le mani, ormai senza alcun freno.
Lui la coccolò, le accarezzò i capelli lunghi e lisci, dondolandola, proprio come faceva quando era piccola. E attese il momento migliore per cominciare a parlare.

49.

Berardi arrivò, quel giorno, in poco meno di un’ora.
Anche gli autovelox distribuiti lungo la statale 38 dello Stelvio tra Morbegno e Sondrio, non riuscirono a scattare in tempo alcuna foto, vista la velocità dell’auto lanciata a bomba contro l’ingiustizia.
Voleva arrivare presto, prestissimo, e delle multe non gliene poteva fregare di meno.
E Chiesa era lì, ormai a due passi.
Posteggiò malamente, quasi facendo stridere le ruote, come un qualsiasi cialtrone che voleva fare colpo sulla giovane rampolla di turno.
Entrò di corsa nella hall dell’albergo, attese un attimo che gli occhi si abituassero alla penombra e che il respiro riprendesse un ritmo normale. Con pochi passi ben distesi conquistò l’ufficio della Silvana.
Era vuoto. Allora uscì, trafelato, corse verso le cucine ma ottenne lo stesso risultato. Guardò nel giardino che era alle spalle dell’edificio, pensando di trovarla lì. Nessuno.
Rimaneva solo l’ultimo piano dell’albergo.
Ignorò l’ascensore, corse per le scale e raggiunse la porta che delimitava la parte dedicata agli ospiti dall’appartamento privato della proprietaria.
Era socchiusa. Strano, pensò.
La spinse dolcemente, chiamò a voce alta “Silvana, ci sei?”, senza però ottenere alcuna risposta.
Non volava neanche una mosca.
- Eppure eravamo d’accordo al telefono che sarei arrivato entro breve, pensò. - Sarà successo qualcosa?
La tenue luce del pomeriggio illuminava il corridoio. Buttò la testa in cucina e nulla, guardò nel salone e non trovò neanche un fantasma, sbirciò anche in bagno - non si sa mai! - ma anche lì senza successo.
Rimanevano le camere da letto. Quella del Massimo era vuota come era normale che fosse, visto che sarebbe salito da Sondrio solo a fine scuola, ormai nel tardo pomeriggio.
Rimaneva la stanza da letto della donna, chiusa.
- Che faccio, entro? Busso? Urlo? pensò il Berardi, ancora con il cuore in gola.
Prima entrò, poi bussò e alla fine urlò. Ma di sorpresa.
Silvana, in tutto il suo splendore lo aspettava indossando una splendida camicia a righe e null’altro, distesa sul letto, in un atteggiamento che lasciava pochi dubbi.
- Vieni Berardi, sussurrò Silvana - da oggi iniziamo una nuova vita. E allungò le braccia per accoglierlo in un abbraccio.
Lui si lanciò sul letto e poi, come nei film degli anni cinquanta, qualcuno, lentamente chiuse la porta, lasciando solo spazio all’immaginazione.

50.

Giulia, a un certo punto, tra singhiozzi, sospiri e fazzoletti, finalmente finì di disperarsi e cominciò piano piano a calmarsi.
Il padre, ormai con una certa fatica, se la portò in braccio nel salone, si sedette sul divano senza lasciarla un attimo e si apprestò a parlarle, per capire, per fugare dubbi, per comprendere.
Ma Giulia anticipò il suo papà militare.
- Papà, ti devo dire una cosa, esordì la ragazzina. - Anzi, ti devo confessare una cosa, aggiunse tirando su con il naso e sfregandolo con il dorso di una mano.
Lui le porse un fazzoletto, la abbracciò ancora, preparandosi al peggio.

- Ti ascolto, le disse
- Papà, la cartolina non l’ho trovata in pineta. L’ho trovata nel cantiere della nuova piscina, su al Valtellina, spiattellò velocemente Giulia, per evitare di bloccarsi a metà. - Ti ho raccontato una frottola, scusami.
Il maresciallo si irrigidì, come era solito fare anche in ufficio, quando scopriva che qualcuno l’aveva preso per i fondelli e lui ci era cascato senza neanche accorgersene.
- Ma c’è di più, continuò Giulia, rendendosi conto che il padre stava assumendo colorito del viso e postura di chi sta per scoppiare con un’incazzatura oltre ogni limite.
- Sono tornata un’altra volta al cantiere e quella volta gli operai mi hanno scoperta!
- E cosa ti hanno fatto? chiese il padre allarmatissimo, portando testa e mano a una pistola virtuale, pronto per una strage sul posto.
- Nulla papà, cosa vuoi che mi abbiano fatto? chiese ingenua la giovane figlia. - Il capo cantiere mi ha rimproverato, ha voluto sapere chi ero, e mi ha detto che ti avrebbe riferito tutto. Mi dispiace papà, ho sbagliato, scusami...e giù di nuovo a piangere.
Il maresciallo la guardò con amore e quella punta di risentimento che era rimasta, ormai, stava velocemente lasciando spazio a una paterna tenerezza.

- Tutto qui? domandò improvvisamente. - Non è successo nient’altro?
- No papà, nient’altro. Erano giorni che volevo dirtelo, anche alla mamma, ma non avevo il coraggio di raccontarlo. Tu mi avevi proibito di frequentare il cantiere. Odio disobbedirti ma a volte è più forte di me, rispose mortificata Giulia.
- Tutto qui! pensò il maresciallo, ormai leggero come una piuma e fissando negli occhi quanto di più prezioso avesse. - È tutto qui!
La gioia lo invase, la felicità prese il sopravvento, il mondo gli parve un luogo di spensierata gioia. La prese in braccio e cominciò a girovoltare nel mezzo del salotto, felice come una pasqua.
Quando si fermò Giulia lo guardò sconcertata. Era ormai pronta alla scenata e alla punizione - e che punizione, immolatasi sull’altare della verità. Quella reazione non l’aveva contemplata.
- Amore mio, io capisco che tu debba crescere e crescere significa anche superare i limiti, rifiutare l’autorità, ribellarsi ai propri genitori, e non solo. Io capisco tutto, o almeno provo a capire, dall’altezza dei miei capelli sempre più grigi, ma anche dalla bassezza dei miei limiti. Ma, per favore, cerca sempre di essere onesta con te stessa e con i tuoi genitori, oltre che con il mondo intero. Se combini guai, e lo farai stanne certa, per favore diccelo. Insieme troveremo una soluzione. Non chiuderti in te stessa come hai fatto in queste settimane, perché tua madre e io abbiamo passato momenti di vero e proprio terrore al pensiero che ti fosse capitato qualcosa di grave.
- Se ti avvicini ancora al cantiere su al Residence Valtellina ti arresto!, concluse, aggiungendo un rassicurante e paterno sorriso che fece sciogliere l’amata figlia che abbracciò il padre con tutta la sua forza.
- Ora mentre aspettiamo che torni tua madre, in modo da rassicurare anche lei, mi racconti della cartolina? chiese il Pandolfi.
Allora Giulia, ormai rasserenata e ritornata in forze, raccontò tutto al padre, sia la prima visita, sia la seconda.
E alla fine, si alzò leggera come una libellula, salutò il padre e si precipitò fuori di casa, per ricominciare a tessere le relazioni che aveva interrotto ormai da troppo tempo.
A questo punto, il mistero della cartolina si infittiva ancora di più.
E il maresciallo decise che quel mistero, tra storia, passato e canguri, doveva essere chiarito. A costo di aprire un’indagine ufficiale.

51.

Don Artemio, quella domenica, voleva mantenere la parola che aveva preso con la Silvana.
Voleva parlare ai suoi parrocchiani, nell’omelia della messa principale della domenica mattina, quella delle undici, facendo così in modo di raggiungere tutto il paese; prima di tutti i presenti, poi tutti gli altri, con il passa parola automatico e obbligatorio.
Bastava poco, in paese, in fondo, per far circolare qualsiasi notizia o illazione. E Don Artemio aveva più carisma e autorevolezza di chiunque, oltre che una voce forte e tonante, anche per i più duri d’orecchio.
E si preparò.
Si riunì con se stesso, nel salotto della casetta che ospitava il suo appartamento e l’ufficio.
Davanti al grande specchio che troneggiava sulla parete principale, cominciò a declinare, a spargere parole e concetti, a raccontare, ad ammonire e ad assolvere, manco fosse Giulio Cesare al Senato di Roma. In alcuni momenti si sentiva anche un po’ Don Camillo, quando imbracciava il bastone che teneva sapientemente dietro alla porta d’ingresso, pronto all’uso, per difendersi da Peppone e dai suoi, ma molto spesso anche per raddrizzare quelli della sua parte, che perdevano troppo spesso la carità cristiana e la solidarietà accecati dall’egoismo.

E così si era presentato in chiesa carico come una furia di dio, pronto a colpire ma soprattutto a convincere.
- Cari fedeli, il brano del Vangelo che vi ho appena letto, offre l’occasione a tutti noi per fare due riflessioni, una figlia dell’altra.
Fece una pausa voluta, teatralmente ineccepibile.
E conitnuò.
- Il primo è che Dio è buono, che ci ama e che non vorrebbe mai farci del male. E che ci capisce. E che ci perdona. Il secondo è che va bene tutto, ma malignare su tutto e su tutti lo fa imbestialire e a un certo punto potrebbe dimenticarsi di essere buono e potrebbe anche arrivare alla conclusione di non perdonarci più. E punirci. E quando Dio vuole punire non lo fa in punta di piedi, picchia sodo.
Il tutto con il dito indice della mano destra teso, pronto a colpire.
E poi un articolato discorso sulla solidarietà, sull’attenzione per il prossimo, sulla carità cristiana, sulla disponibilità verso gli altri e soprattutto sulla comprensione verso gli altri. Facendo capire senza alcun dubbio, che stava parlando di Berardi, Silvana, moglie del Berardi, felicità e tutto il resto.
E infatti, in chiesa quel giorno, nessuno ebbe dubbi.
- Bisogna sapersi aprire al mondo, non chiudersi, aveva a un certo punto ammonito.
E poi aveva sbottato letteralmente contro le lingue biforcute sempre in attività.
- Adés basta, aveva concluso, usando volutamente il dialetto autoctono, che ormai masticava come l’italiano, accompagnando il tutto con una manata pesante e rumorosa sul leggio occupato per metà dal Vangelo.
Si era girato, e qualcuno avrebbe giurato di avergli visto fare un gesto eloquente con una mano che invitava tutti a uscire il più rapidamente possibile dalla chiesa.

Durante l’omelia, o meglio durante la reprimenda celestiale, molti si erano guardati in faccia, disegnandosi sul viso una sola domanda: “Chi, io? Io no, sarà stato il…”.
Chi era in pace con la coscienza non aveva fatto una piega e alcuni di loro avevano addirittura annuito, in segno di ringraziamento verso il parroco che finalmente aveva preso in mano la situazione.
Il gruppetto del BarCentro, da sempre unito anche durante le messe domenicali - e quella delle undici non era solo una funzione religiosa di precetto, era anche un evento sociale che riuniva la créme de la créme del paese - aveva abbassato gli occhi non tanto per vergogna o sensi di colpa ma perché era scappato da ridere a tutti nello stesso momento. Veri diavoli, in territorio consacrato.
Tutti avevano così guadagnato l’uscita. Era una domenica dal tempo schifoso, nuvole basse, acqua torrenziale, freddo che ti entrava nelle ossa.
Ma anche con quel tempo infame, come ogni domenica che dio mandava in terra, i parrocchiani si erano raccolti a piccoli gruppi davanti alla chiesa, per commentare, per salutarsi, per fare il punto della situazione, per aggiornarsi, per ridere o per condividere le tristezze che immancabilmente la vita spediva.
E l’argomento, quel giorno, era uno solo: quello lì.

52.

Giulia era ormai uscita, dopo che un gruppo di suoi amici, increduli del cambiamento, erano venuti a prenderla per lanciarsi insieme in chissà quale guaio. Quando Giulia stava per varcare il cancello della villa, aveva scambiato un fugace sguardo di intesa con il padre, rassicurandolo. E lui le aveva sorriso.
- Ok Elena, ora puoi ritornare. Dopo ti racconto.
Questo il testo dell’sms che il maresciallo aveva spedito alla moglie una volta che si era allontanata dalla casa.
Lei, che si era a rifugiata in biblioteca, in attesa del via libera, gli aveva risposto subito chiedendogli come era andata, ma lui aveva evitato di risponderle. Per una volta, era lui che voleva far stare sulle spine la sua amata moglie, farla rimanere in sospeso, uno dei giochi preferiti della bella Elena con il maresciallo.
- Aspetta un po’, ti fa bene!, pensò con il telefono in mano davanti al messaggio di risposta.
Elena, dopo il messaggio di via libera del maresciallo e la sua non risposta, cominciò a risalire dal centro del paese verso casa molto velocemente, quasi correndo, alternando sguardi d’odio verso il display dello smartphone a insulti tra i denti verso il suo amato marito.
- Se pensi che ti chiami, te lo puoi scordare, bofonchiò tra sé e sé.
Prese la scorciatoia che permetteva dal paese di raggiungere la contrada in un battibaleno, per ritrovarsi a pochi passi dalla casa con un respiro accelerato e rantoloso. Si fermò per riprendere fiato, per riflesso alzò gli occhi verso la casa e proprio in quel momento si accorse che il maresciallo la stava guardando, sorridendo, con una poco celata aria di scherno.
- Appena arrivo la paghi, caro mio! si trovò a pensare la signora. - Giuro che la paghi. E riprese a salire.
Lui le aprì il cancello e la prese tra le braccia, e lei di tutto rimando lo allontanò, cominciando a picchiare i pugni sul petto del marito, inveendo contro la sua scarsa sensibilità.
- Era solo uno scherzo, non te la prendere. Con Giulia è andato tutto bene, tutto è sistemato, e cominciò velocemente a raccontarle tutto, senza omettere nulla, anche i minimi particolari, verbali e non.
Lei si calmò, all’improvviso, come se si fosse improvvisamente sgonfiata.
- Devo sedermi, fammi entrare per favore.
Entrarono in casa, lei si accasciò ancora con giaccone e sciarpa al seguito e provò a riprendersi da tutta quella tensione accumulata.
E lui le saltò addosso, approfittando del pomeriggio festivo e della casa libera.

53.

- Russo, urlò il maresciallo quel lunedì mattina, appena arrivato in ufficio.
- Comandi signor maresciallo, vuole un caffè? rispose arrivando di corsa il carabiniere preferito del comandante.
- Il caffè sarebbe un’ottima idea, ma io ti voglio parlare di altro. Siediti!, ordinò imperiale. E Russo si sedette, immediatamente, quasi cadendo sulla sedia. - Allora Russo, ti ricordi della cartolina, con la foto dell’Opera di Sidney?
- Certo, benissimo. Che fine ha fatto?
- Per ora è a casa mia, mentì il maresciallo, cercando di lasciar fuori la madre del Berardi, almeno per ora. - L’ho dimenticata a casa nel weekend. Volevo solo che cominciassi a muoverti in paese per capirne di più.
Russo era sveglio, anzi sveglissimo, capiva tutto al volo, ancora prima che il maresciallo gli desse un ordine. Anzi, con lui, bastava un’indicazione anche generica e partiva a testa bassa e non mollava l’osso fino a quando non aveva raggiunto l’obiettivo.
Aveva l’indagine nel sangue, aveva un istinto quasi animalesco e il maresciallo, come già detto, aveva subito percepito queste capacità innate.
Ma questa volta Russo, con il viso imparpagliato, fissò il suo capo senza fare una mossa perché, di fatto, non aveva capito cosa dovesse muovere, e soprattutto in che direzione.
Il maresciallo lo fissò, capì che c’era un problema, di comprensione o di semplice comunicazione interna. E capì anche che lui in primis non sapeva bene cosa chiedere. Forse era meglio confrontarsi in modo da definire una strategia che stesse in piedi.
- Hai ragione, Russo. Scusa. Vediamo di fare così.
Si alzò dalla sua sedia, girò intorno alla scrivania, si avvicinò al carabiniere, sempre più perplesso, e gli si sedette quasi in fronte, approfittando di uno spazio vuoto sulla scrivania stessa. Un modo di avvicinarsi, non solo fisicamente, al giovane ragazzo ormai in stato confusionale.
- Se dovessi scoprire a chi era indirizzata questa cartolina aborigena, da dove cominceresti?
Russo lo guardò e si buttò.
- Beh, su tutte le cartoline c’è un indirizzo, sennò come fanno a spedirla?
Beato ragazzo, pensò il maresciallo. Che fai, mi prendi per i fondelli?
- Ok Russo, ma come ricorderai, replicò Pandolfi con una malcelata irritazione, - sulla cartolina in questione l’indirizzo è stato cancellato dal tempo. Giusto?
Russo diventò, in pochi secondi da bianco a rosso, per poi assumere un colorito viola vergogna. Abbassò gli occhi, solo per annunciare la sua sconfitta.
- E non te la prendere così, Russo, eddai! Vediamo di fare il punto insieme, così stabiliamo che fare.

Cominciarono a discutere, a confrontarsi e l’unica cosa che aveva un senso a quel punto era di andare in giro per il paese a chiedere se qualcuno avesse parenti o amici (quarant’anni fa!) in Australia, oppure se qualcuno fosse stato in Australia (quarant’anni prima!), in vacanza oppure, più probabile, per lavoro.
- Se è d’accordo con me, maresciallo, parlerei con persone che hanno almeno dai cinquanta in su, però. Se non scopro nulla, passo a quelli più giovani.
- Bravo Russo, così si fa. Iniziativa e cervello, sono le chiavi del nostro lavoro. Altro che barzellette…
Ecco, il tormentone delle barzellette sui carabinieri era una cosa che il maresciallo non riusciva a digerire. Si imbestialiva ogni volta che ne sentiva una nuova, ogni volta che usciva l’ennesimo libro imbecille che le raccoglieva, ogni volta che le sentiva citare quando se ne andava in giro con la sua uniforme. Era una cosa che gli faceva andare il sangue al cervello.
Russo si inorgoglì, scattò sull’attenti battendo i tacchi manco fosse di fronte a un generale di corpo d’armata, buttò fuori il petto con aria marziale, salutò e partì per la missione.
In fondo ci voleva poco, pensò Pandolfi.
- Ah Russo, ricordati due cose: uno il caffè, due che la cartolina è un’indagine ‘ufficiosa’, è solo una curiosità storica, non ci sono reati da accertare. Quindi fai attenzione. Non vorrei che il comando della regione militare o qualche superiore mi chiamassero per avere spiegazioni.

Guardò fuori dalla finestra del suo ufficio. Da quel punto del paese così in basso si vedeva il verde pieno delle pinete che coprivano i monti dall’altra parte della valle, che provocavano al maresciallo sempre lo stesso effetto: serenità e un senso di infinito che gli allargava il cuore.
E dall’infinito delle montagne a Google la strada è cortissima, anzi a volte le due cose coincidono.
Ebbe un’illuminazione. Aprì il portatile, andò sul motore di ricerca, digitò in sequenza Australia e Chiesa in Valmalenco e attese i risultati, che in pochi centesimi di secondi riempirono lo schermo.
Scrollò, aprì qualche link, lesse qualche riga, trovò qualche riferimento, ma concluse che non c’era nulla che riportava agli anni ‘70, a Chiesa e al continente australe.
Riprovò con diversi incroci, con virgolette aperte e chiuse, con qualche cognome del luogo a caso.
Niente da fare, nulla di nulla. Come forse era normale che fosse. In fondo Google non era né l’anagrafe né la Farnesina. Va bene tutto, ma c’era ancora qualcosa che non poteva indicizzare e sapere.
Chiuse il portatile con forza eccessiva, con stizza, si alzò in piedi, andò alla finestra, alla ricerca di un’ispirazione, di un’intuizione geniale, che non arrivò.
Si risedette. Era deluso, e soprattutto un po’ irritato contro internet, contro Google e soprattutto con il mondo intero.
Quella cartolina sembrava diventare una fissa, ma non riusciva a trovare una strada percorribile per risolvere il mistero, a parte le chiacchiere che Russo avrebbe sparso in giro per il paese, sulle quali Pandolfi non confidava per nulla.
A quel punto si rese conto che la cartolina era ancora nelle mani del Berardi, e gli venne un nervoso che avrebbe spaccato tutto quanto, vista la promessa da parte dell’imprenditore di una pronta restituzione. E proprio in quel momento, il cellulare cominciò a vibrare, irritante come sempre e invasivo come non mai.

54.

Non poteva essere altrimenti.
Nei giorni a seguire, al BarCentro, centro di tutti i centri, la discussione e gli approfondimenti non potevano che vertere sul ‘comizio’, così lo chiamavano ormai quei perdigiorno, che Don Artemio aveva tenuto nell’ultima messa domenicale.
Bisogna capirli. Si erano sentiti chiamati in causa in modo diretto e dopo aver reagito ridacchiando al momento come scolaretti trovati a copiare i compiti, appena si erano allontanati dalla chiesa, ci avevano pensato su e si erano arrabbiati, indignandosi contro il prete che aveva osato attaccarli pubblicamente, tra l’altro senza il coraggio di fare nomi e cognomi.
In realtà Don Artemio non aveva nessuno di preciso in testa quando si era scagliato contro il facile pettegolezzo e anche la cattiveria di qualcuno. Sì, aveva pensato a loro - ormai erano un’istituzione in paese - ma anche a quelle donnette sempre a sparare contro tutto e contro tutti, ai facili moralizzatori con armadi pieni di scheletri e ai benpensanti cinici e ottusi. Aveva pensato a quell’onda che ormai era montata in paese e che se non veniva arginata avrebbe portato a uno tsunami tragico e doloroso, per tutti.
Ma quelli del bar, ammalati di egocentrismo come ormai gran parte del mondo conosciuto, pensavano di essere gli unici oggetto degli strali della novella inquisizione.
- Pensa un po’ te, disse il Monatti, tutto infervorato e dall’aria solennemente indignata. - Adesso non si può neanche parlare, disse al consesso riunito intorno al solito tavolo rotondo all’entrata del locale. - Sono mica io quello che c’ha un’altra donna pur essendo sposato. E così alla luce del sole. Si nascondessero almeno...
Perché quello era il peggior reato che imputavano alla coppia. Ognuno poteva fare quello che voleva, bastava non farlo alla luce del sole. Ipocrisia pura.
E Berardi e la Silvana, infatti, non avevano mai fatto mistero della loro relazione, alla faccia di tutte le ipocrisie, che poi erano patrimonio dei soliti, mentre la maggior parte del paese o si faceva giustamente gli affari propri, oppure aveva ampiamente accettato la relazione, vista anche la triste situazione familiare del Berardi a Morbegno.
- Monatti, per una volta lei ha ragione. Stiamo tornando al medioevo? Io dico quello che voglio, va ben? ribadì il farmacista.
Anche il signor Rosatti, che non faceva parte ufficialmente del nostrano circolo Pickwick - ma che aveva la cassa del bar proprio di fronte al tavolo di discussione - calcò la mano e si schierò, almeno una volta, con quei signori che in tutte le altre occasioni li avrebbe sbattuti fuori dal suo locale.
- Giusto, Monatti, bravo. Anche i preti ci si mettono, adesso? Non capisco più niente.
Tutti gli altri annuirono, tranne il Riva, come sempre entrato a discussione già avviata e che aveva le mani, non solo quelle virtuali, che gli prudevano.
- E meno male che il prete parla! Finalmente in difesa della povera gente e non solo della moralità costituita e di un qualche alto papavero. Si vede che il Francesco a Roma sta facendo scuola…, disse il Riva, orgoglioso del suo intervento di contestualizzazione storico/geografico/teologica che avrebbe fatto invidia agli intellettuali più raffinati di qualche salotto capitolino. - Perché non li lasciate in pace quei due? A voi che ve ne frega? O siete solo invidiosi perché si vogliono bene e voi avete ormai solo da recriminare sui vostri passati?

Nel bar scese il gelo. Tutti guardarono il ‘giornalista’ con sguardi che andavano dall’odio puro allo sgomento assoluto, dalla sorpresa totale alla voglia di punire in modo violento quella lingua troppo lunga e soprattutto tagliente.
Il Riva non aveva paura, aveva visto di peggio.
Li fissò tutti, a uno a uno, e concluse.
- Siccome so che siete tutte persone intelligenti, so anche che ci penserete e alla fine converrete con me. Questo non è più pettegolezzo divertente che porta, in fondo, solo a qualche sfottò, questo è accanimento contro due persone, un uomo e una donna che fanno parte della nostra comunità. Tra di noi dobbiamo difenderci non attaccarci.
E con quest’ultimo invito, anche all’uso raziocinante delle presunte cellule cerebrali, si girò - sogghignando soddisfatto - e raggiunse l’uscita.

55.

Russo, autorizzato dal comandante, aveva coinvolto un collega, Francesco Locatelli da Seriate in provincia di Bergamo, un giovane carabiniere da pochi mesi arrivato alla stazione di Chiesa e che aveva bisogno di imparare.
- Locatelli, qual è il motto del Carabiniere? Lo aveva detto appena convocato alla sua scrivania.
- ‘Nei secoli fedele’, rispose immediato e granitico il Locatelli, con il suo bell’accento rotondo.
- Vero, e cosa significa? Che siamo fedeli allo Stato, lo difendiamo e anche che siamo muti come dei pesci, quando serve.
Il giovane carabiniere guardò Russo con un’espressione ebete, perché non stava capendo dove questo dialogo lo stesse portando. Cosa diavolo voleva dire?
- Traduco, aggiunse Russo vedendo il suo interlocutore un po’ perplesso. - Intendevo dire che siamo anche riservati e non facciamo parola delle operazioni che seguiamo, giusto? E se qualcuno ci chiede riservatezza, o meglio, segretezza, noi siamo garanti di queste richieste, ok?
Locatelli annuì, anche se non proprio in maniera convinta. Non era in disaccordo con Russo, ma semplicemente continuava a non capire dove stava andando a parare.
- Bene. Allora, guagliò, ascolt’ammè. Il maresciallo ci ha comandato per un’operazione riservata e anche un po’ segreta. Non ne devi far parola con nessuno. Cosa delicata è...hai capito?
- A disposizione!!
E Russo gli raccontò tutto, la cartolina, l’indirizzo cancellato, il ritrovamento, la figlia Giulia, la curiosità di sapere a chi era indirizzata, Sidney e l’Opera.
- Ok, partiamo? gli domandò Russo.
- Partiamo, e vinceremo!, rispose credendo di fare lo spiritoso. Russo rispose con un’occhiata insolente che fece abbassare gli occhi al giovane militare.

I due carabinieri uscirono dalla caserma, presero un’auto di servizio, e vincendo la pigrizia si buttarono sotto l’ennesima nevicata per partire alla ricerca di indizi, informazioni, indiscrezioni e pettegolezzi.
L’importante era iniziare, poi...e poi si vedrà, aveva pensato Russo.
E per iniziare, chi meglio del parroco?
- Forza Locatelli, rapido, cominciamo da Don Artemio.
Dalla stazione dei carabinieri alla parrocchia era forse un chilometro, bisognava solo risalire. Tre minuti e mezzo, forse, di auto. Con la neve cinque, per fare cifra tonda.
Coprendosi il collo in cui continuava a infilarsi in modo ostinato il novanta per cento dei fiocchi di coltre bianca, Russo suonò il campanello della canonica, attendendo il viso sospettoso della perpetua che a giorni alterni si occupava delle cosiddette faccende domestiche del Don.
Ma fu direttamente Don Artemio ad aprire e vedendosi di fronte l’Arma schierata non poté altro che spostarsi di lato per farla entrare tutta, domandandosi contemporaneamente ‘Cosa vorranno mai questi due sbarbati’?

56.

Dall’incontro con Don Artemio i nostrani Starsky&Hutch non ottennero nulla di che. Anzi. Dovettero sfoderare le loro capacità diplomatiche più nascoste per rintuzzare la curiosità del prete che cresceva man mano che i due militari insistevano con le domande.
Uscirono velocemente quando Don Artemio stava diventando troppo insistente. Meta successiva: le Poste. Il direttore forse sapeva qualcosa, ma nessuno dei due ci credeva. E poi la privacy, non poteva certo andare in giro a raccontare da dove arriva la posta, dove veniva inviata… E infatti il direttore, uomo di buon senso, li cacciò amabilmente fuori dall’edificio, senza calcare troppo la mano.
Poi puntata rapida e ancora più veloce in banca, per spostarsi, al bar Centro, nevralgico crocevia di tutto.
Ma lì bisognava stare veramente molto attenti. Tra quel gruppo di habitué scaltri e velenosi e il proprietario veloce di lingua e di cervello, si correva il rischio che la notizia montasse in pochi secondi come la panna e che impazzisse come la maionese.
Ma soprattutto Russo era un uomo di relazione. Tra una battuta in napoletano, una domanda fatta al momento giusto e un cambio di argomento repentino quando aveva cominciato a sentire puzza di bruciato aveva preso sottobraccio il collega e aveva rapidamente raggiunto l’uscita, con zero informazione ma senza aver generato alcun sospetto.
Che era già una vittoria.

Andarono in giro per tutto il pomeriggio e la mattina dopo, chiacchierando amabilmente con tutti gli anziani del luogo, si spostarono anche nei paesi e nelle frazioni più lontane, dove ancora qualche grande vecchio regnava sovrano tra gli alpeggi, ma senza successo.
Rientrarono poco prima di pranzo, scornati, profondamente delusi.
Il maresciallo li vide sfilare davanti alla porta aperta del suo ufficio e provò per loro una punta di tenerezza. Anche il loro lavoro, come quelli ‘civili’, conosceva momenti di solenne sconforto e di grandi delusioni. Li chiamò nel suo ufficio.
- Niente di fatto, allora?
- Abbiamo girato tutto il paese, abbiamo parlato con tutti quelli che hanno un’età avanzata, con tutti quelli che hanno ricordi lontanissimi. Niente di niente. Neanche un piccolo riferimento, un piccolissimo indizio. Dell’Australia nessuno sa nulla, almeno in riferimento alla nostra valle. Un disastro su tutti i fronti, maresciallo, aveva raccontato Russo, mentre il Locatelli annuiva per solidarietà.
- Beh, lo sapevo già che sarebbe stato difficile avere qualche informazione utile. Era una battaglia quasi persa all’inizio. Non fa nulla, grazie lo stesso. In fondo era solo una curiosità, la voglia di sapere cosa c’era dietro a una cartolina di quarant’anni fa, solo curiosità, nulla più, concluse Pandolfi. - E non posso più abusare della vostra cortesia, abbiamo cose più importanti e urgenti. Russo, ributtati a capofitto su quel furto in quell’albergo a Chiareggio e vediamo di venirne fuori. È stato sicuramente uno del luogo, e gli scansafatiche di qui li conosciamo tutti, nome per nome. Locatelli dagli una mano, visto che sembrate affiatati. Forza, al lavoro!
E li congedò.
A questa faccenda della cartolina, pensò il maresciallo, stava forse dedicando troppo tempo e personale. Una faccenda che soprattutto non aveva la necessità di essere chiarita; a chi importava, in fondo, da chi è stata scritta e a chi è stata inviata una cartolina ritrovata per caso in un cantiere?
A nessuno, si rispose. E cercò, anche con la mano sinistra, di allontanare il pensiero.
Ma la cosa che lo intrigava non era la cartolina in sé, il mittente, Sidney o i canguri. La cosa che lo affascinava, smuovendo la sua curiosità più recondita, era la datazione della cartolina, erano quei quarant’anni che rendevano l’intera vicenda seducente e misteriosa.
Il maresciallo amava, spesso e volentieri, voltarsi indietro, verso il passato.
Aveva ricordi vivissimi della sua infanzia, del mondo in cui era cresciuto, delle vicende storiche e politiche della seconda metà del novecento, della musica, dello spettacolo, della cultura.
Lo ricordava sempre a sua figlia, ogni volta che le faceva qualche pistolotto serio sulla vita e sul suo presunto significato.
- Cara Giulia, oggi siamo quelli che siamo grazie al nostro passato, e domani saremo quelli che saremo grazie a quello che oggi è il nostro presente, chiosava pavoneggiandosi della sua infinita saggezza.
A quel punto però accantonò i ricordi, i temi cosmici e la filosofia di vita, per cercare di convincersi che in fondo, della cartolina, poteva anche dimenticarsi. L’avrebbe usata come segnalibro, appena il Berardi gliel’avesse restituita.

Per sancire definitivamente la fine ‘del caso della cartolina’ si dedicò a quanto di più noioso il suo lavoro gli riservasse: burocrazia, firme, rapporti e amenità varie.
E della cartolina se ne dimenticò definitivamente, come se ne dimenticò il Berardi, che non la mostrò mai alla madre lasciandola dormire a lungo nella tasca della sua borsa del computer, ormai malandata e ricca di storia. Borsa che a un certo punto regalò a sua madre, dopo che l’aveva rimpiazzata con un più pratico e giovanile zainetto molto trendy.
Quella cartolina sembrava destinata a rimanere nascosta e persa nel tempo.
Un’altra volta e forse per sempre.

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