Capitoli 22-34

22.

Non avete idea che fatica avere un papà carabiniere. Sempre sotto indagine, sempre a rispondere a domande, sempre con una lampada virtuale accesa sulla scrivania e sparata in faccia, manco fosse un interrogatorio in un film di Hollywood.
Pandolfi lo sapeva. La sua anima investigativa a volte prendeva il sopravvento quando meno se lo aspettava, facendogli puntare gli occhi in faccia al suo interlocutore con fare sospettoso, anche solo per chiedere l’ora.
Giulia conosceva bene il suo ingombrante genitore. E in quei casi cercava di pensare velocemente per impapocchiare una risposta che non imponesse una seconda domanda ancora più insidiosa.
Poi stava al carabiniere se affondare, scardinare omertà o, gravissimo, percepire falsa testimonianza.
Il più delle volte sorvolava, e sempre più spesso con un sorriso sulle labbra, almeno con sua figlia.
- Insomma mi vuoi dire dove l’hai trovata?
Il maresciallo si rigirava tra le mani quello che Giulia aveva buttato sulla tavola.
Era una cartolina, dal formato quasi quadrato, proprio come quelle di qualche decina di anni fa.
Una cartolina molto provata dal tempo, ingiallita in alcune sue parti, con tutto il testo sbavato dal tempo, ma ancora leggibile. O quasi.
Giulia doveva decidere tra una storia di fantasia, o meglio tra una balla bella e buona, e la verità.
Suo padre, dopo che l’aveva scoperta una volta a gironzolare per il cantiere del Valtellina l’aveva diffidata dal tornarci, spiegandole che era pericoloso, sia per i continui mezzi che ronzavano intorno, sia per le macerie che rendevano tutto instabile, sia perché erano tutti uomini a lavorare e quindi…
L’aveva colta sul fatto per caso, grazie a un sopralluogo in pineta, a seguito di una banale indagine - poi finita nel nulla - di presunti ‘ladri di legna’, rivelatisi poi ragazzi che avevano esagerato con i loro giochi.
La pineta, famosissima in tutta la valle e antico camminamento degli ospiti illustri del Grand Hotel, offriva una vista privilegiata del residence e proprio quella volta, buttando l’occhio verso l’edificio, il Pandolfi aveva visto sua figlia gironzolare lì intorno, insieme a una masnada di disgraziati suoi compagni di scuola.
Era tornato a casa imbestialito, come se avesse assistito a una rapina in banca e aveva ripreso la figlia facendole capire che quella sarebbe stata l’unica volta che si sarebbe avvicinata al cantiere. Pena, il carcere a vita ad Alcatraz, che avrebbe fatto riaprire lui personalmente alla bisogna.
Giulia non se la sentiva di mentire, ma mentì, e mentì così bene che anche il maresciallo si lasciò convincere o forse ci cascò e basta.
- L’ho trovata in pineta, vicina a quella sorta di fontana, circa a metà strada. Un po’ lì sopra, tra i sassi, esordì.
Il piccolo rivolo d’acqua proveniva dalle sovrastanti fonti di origine solforosa e, almeno un tempo, si diceva che avesse proprietà terapeutiche, digestive e stimolanti dell’appetito. Un vero bengodi, che aveva dato un motivo in più ai turisti di venire in visita e alimentato anche il marketing turistico ante litteram nei primi decenni del Novecento.
E Giulia continuò.
- Mattia e io stavamo cercando tracce del cervo che hanno avvistato l’altro giorno, tra due pietroni ho visto qualcosa di colorato e allora mi sono avvicinata.
Lui la guardava, celando a malapena l’ammirazione. La guardava e la ascoltava, ma nello stesso tempo la osservava in una sorta di silenzio assoluto, seguendo i suoi lineamenti, i suoi sempre più lunghi e lisci capelli, la bocca che arrotolava le parole, le mani che accompagnavano con eleganza il discorso, la postura…
Se la rimirava sua figlia, prima di ascoltarla. La abbracciava con lo sguardo, semplicemente. Era amore vero.

- Ma è una cartolina vecchia come il cucco, sbottò il padre sfoderando la sua origine lombarda.
Cominciò a guardarla con attenzione. Vide che era scritta sul retro, ma per prima cosa si concentrò sull’immagine che campeggiava, come voleva la tradizione, sul fronte della cartolina.

- Ma questa è l’Opera di Sidney!!!
Sua figlia Giulia si stava domandando perché oggi, in quella giornata mandata da dio sulla terra, suo padre avesse cominciato a fare affermazioni iniziandole tutte con un ‘ma’.

- Ma questa è l’Australia!!!! concluse, finalmente, la sua acuta e professionale analisi grafico-fotografica.
Sua figlia era sempre più preoccupata.
E pensò: non si starà ammalando, vero? Oppure è impazzito?
Il maresciallo se la girò tra le mani, la cartolina.
Era ingiallita, macchiata, l’inchiostro era allungato come se fosse stato asciugato nella galleria del vento, in un punto dell’indirizzo c’era persino un buco, che ne cancellava parzialmente la lettura.
La soppesò come se dovesse verificarne l’autenticità, la mise contro luce e poi, finalmente, cominciò a cercare indizi, testi, lettere, calligrafie, indicazioni.

- Prima di tutto vediamo se c’è una data…, disse allungando una mano verso gli occhiali posati sulla tavola.
Giulia tirò un sospiro di sollievo, aveva evitato il ‘ma’, rituffandosi in un’allocuzione più accettabile e usuale.

- 4 giugno 1974...Sidney...ma è di oltre 40 anni fa, madonna santa!!!
La cartolina riportava la classica immagine dell’Opera di Sidney, sulla baia omonima che si stagliava - in una suggestiva fotografia al tramonto - contro un cielo rosso e dalla luce calda e rassicurante. Era bellissima, nonostante il tempo passato.
L’Opera di Sidney era stata inaugurata neanche un anno prima rispetto alla spedizione della cartolina, quando il mondo non era ancora globalizzato e l’Australia era ancora una delle mete lontane, dall’altra parte del mondo, inarrivabile, dal fascino intatto.
Quarant’anni, pensò il maresciallo.
Ma come avrà mai fatto a conservarsi così bene, in un bosco, tra pietre, pioggia, neve e freddo?

23.

- E chi l’ha scritta? domandò il maresciallo alla figlia.
Lei si strinse nelle spalle, anche perché non aveva davvero letto nulla.
Quando l’aveva rinvenuta nel cantiere al Valtellina, tra quelle pietre accumulate dopo un intervento deciso di piccone, aveva guardato la fotografia, l’aveva pulita con una mano dalla terra e dell’umidità, e se l’era messa nella tasca dietro dei jeans. 

- Appena a casa la guardo, aveva pensato, non prevedendo il suo ritardo e il pressing del padre a seguito durante il pizzocchero party.
- Allora, vediamo un po’ cosa c’è scritto, continuò il maresciallo tra l’ultimo sorso di vino e il pezzo di formaggio locale che lo attendeva nel piatto.
Se la rigirò in mano più volte, riguardò bene la fotografia e poi si gettò tra quelle tracce d’inchiostro che venivano da lontano.
E lesse ad alta voce.


“Ciao amore mio, qui è un paradiso.
Appena so dove sono i canguri ti scrivo ancora, va bene?
Un bacio.
P.

P.?
E questo chi è? O meglio, chi diavolo era?
E poi, proprio sicuri che sia maschio?
Si concentrò sul destinatario. Il nome era cancellato completamente, il cognome quasi, tranne una A nel mezzo e una I come conclusione. Un po’ poco per capire. E nell’indirizzo si leggeva chiaramente 23023 Chiesa in Valmalenco (So), Italy, ma poco o nulla della via, tranne una O conclusiva.
Insomma la cartolina era perfettamente conservata nella parte del testo ma lasciava poco margine per comprendere a chi fosse indirizzata.
Il maresciallo si voltò verso la finestra che dava sulla valle, in cerca di un’ispirazione, che non arrivò proprio.

24.

Il maresciallo Pandolfi era famoso non solo per la sua disponibilità e gentilezza, non solo per la bella moglie, e nemmeno solo per quella iena di sua figlia.
Era alquanto popolare - e per questo molto temuto - per la sua velocità. E non al volante di qualche auto di servizio, ma quella mentale.
Aveva un’innata, poi sviluppata con la professione, capacità di intuire al volo le situazioni, di collegare informazioni apparentemente lontane mille miglia tra loro, e quindi di trarre conclusioni che, il più delle volte, gli permettevano di risolvere i suoi casi.
I paesi che avevano visto il maresciallo all’opera negli anni erano piccole comunità, con problemi limitati, e pochi veri e propri casi di criminalità o follia dei singoli.
Spesso il Pandolfi si domandava cosa avrebbe combinato se avesse dovuto lavorare in una stazione in qualche grande città, affrontando casi più complessi e un’esposizione mediatica maggiore.
In fondo gli interessava poco. Aveva scelto - compatibilmente con le esigenze dell’Arma - di frequentare i monti, di offrire la sua professionalità e la sua attenzione a quei luoghi e oggi, dopo anni, era soddisfatto di quello che aveva fatto e ancora curioso di quello che il futuro gli avrebbe prospettato.
Il suo lavoro lo appassionava ancora, molto.

25.

Quella sera al BarCentro, ritrovo coatto e forzato, non erano ammesse assenze.
La riunione l’aveva convocata il Mascherpa, che nonostante fosse foresto almeno d’origine, era un punto di riferimento costante nel dibattito locale. Era inoltre lo ‘stimolatore’ di professione, cioè un rompiscatole assoluto che nessuno poteva ignorare.
Oltre al milanese, il trio dell’avemaria era completato dal Mambelli e dal Monatti, il nucleo storico che a parte le ore notturne presidiava il locale con assoluta irritazione del signor Rosatti, il proprietario, che guardava costantemente torvo il gruppo di nulla facenti che occupavano il tavolo rotondo all’entrata, anche se spesso partecipava alle discussioni.
Ordine del giorno della riunione?

1. Punto della situazione dei lavori al Valtellina così, per puro sfizio di rompere l’anima.

2. Silvana e Berardi, ormai sulla bocca di tutti.
Il Monatti era perplesso però.
Lui ci era nato al paese, ci viveva da sempre, aveva fatto il dipendente del comune, conosceva tutti e tutto, scendeva al bar ogni giorno senza il bisogno che nessuno convocasse la riunione con quella solennità e quindi non capiva l’urgenza di quel giorno. Tra l’altro da parte del milanese, ospite e mai, nonostante l’impegno, riconosciuto malenco.

- Cosa vuole? domandò appena arrivato, visto che il Mascherpa ancora non si era fatto vedere. - È successo qualcosa?

- Boh, forse deve dirci che si è fidanzato, rispose il Mambelli con il suo perenne approccio canzonatorio.
- Ma non gli basta la moglie?, sapendo di affondare una mannaia in una ferita già sofferente.
In quel momento si avvicinò Aristide Riva per partecipare alla riunione massonica. Proprietario di una delle edicole locali, a queste riunioni c’era e non c’era, partecipava e non, essendosi ritagliato un ruolo di ‘invitato permanente’ che gli consentiva grande margine di manovra, e che gli permetteva, quando sentiva puzza di bruciato, di defilarsi abilmente, tenendosi così alla larga dai guai in cui spesso il gruppo si trovava coinvolto.
A quella convocazione non aveva risposto - ora si usavano gli sms, mica i tamburi - ma era da tempo che non partecipava a quel cerimoniale e non voleva rimanere troppo a lungo fuori dal giro.

- Uè Giornalista, è sparito? lo appellarono appena fu in vista.
In fondo erano tutti clienti, e il Riva se li voleva tener buoni, soprattutto in quel periodo di crisi e dai conti magri. E poi stare nel giro era sempre utile, sia per le notizie che circolavano, sia per le opportunità che si generavano, sia per passare qualche mezz’ora in santa pace.


- T’el lì!, esclamò il Mambelli, appena il padre della riunione fece capolino dietro la porta d’ingresso. - Lei è in ritardo!, calcò la mano, solo per rimarcare il territorio come fanno i cani.

Si davano regolarmente tutti del lei, anche se le conoscenze reciproche superavano a volte anche i trent'anni. Era una regola non scritta, che partiva da lontano e che non significava distanza tra le persone ma solo rispetto. E forma.
Il dilagare del tu, l’informalità dei rapporti sociali che rasentava la cafoneria, l’annientamento quasi assoluto delle regole del convivere, tutto ciò veniva ‘combattuto’ con un silente atteggiamento conservativo delle vecchie generazioni, che non volevano mollare e anzi volevano insegnare come si sarebbe dovuto fare.
Loro resistevano come in un’enclave, consapevoli che la battaglia era persa e che a poco a poco tutto sarebbe scomparso per lasciare spazio ai brevi messaggi, agli emoticon, al tu obbligatorio e all’indifferenza reciproca.

- Scusate, mia moglie si mette spesso di traverso e sempre quando non è il momento. La scusa o presunta tale era sempre quella, visto che non si potevano accampare motivi di traffico o distanza.
E conoscendo la moglie del Mascherpa non si faceva fatica a crederci, figurandola sulla soglia della porta a bloccare l’uscita del marito con un fiume di domande, di incombenze prima di uscire, di rotture di maroni oltre l’umana immaginazione.
Antipatica, odiosa, pettegola e infingarda. Ecco cos’era quella iattura che il pover’uomo si portava dietro senza la possibilità di liberarsene. Ma ormai il tempo delle grandi scelte era passato, il momento dei grandi cambiamenti svanito come neve al sole, ed era rimasta solo la paura della solitudine.

- Allora, qual è il problema? avanzò il Mambelli, sempre più irritato e impaziente. - Cosa diavolo sta succedendo?
Silenzio. L’unico rumore era quello virtuale degli occhi di tutti che cercavano tra le rughe degli astanti un segnale, un cenno, un indizio.

- Berardi, chiosò il Mascherpa. 

- L’è mort? chiese di getto il Monatti, sempre attento ai ricambi anagrafici e ai manifesti di annunci mortuari.

26.

Don Artemio si aggirava, agitato, là in fondo al paese, dove ancora gli alberghi sembravano resistere, nonostante la ristrutturazione e la riconversione selvaggia degli anni ‘80 e ‘90 che aveva portato alla chiusura della gran parte delle strutture alberghiere storiche, tra cui il Grand Hotel Valtellina.
Quando all’inizio degli anni ‘60 era stata costruita la vecchia funivia che lanciava di fatto il turismo invernale in valle, l’intera valle era stata presa d’assalto dai cantieri edili che avevano eretto strutture alberghiere di diverse fatture e livelli economici, per soddisfare le crescenti richieste dei turisti invernali ed estivi.
Alcune costruzioni erano orribili, altre erano riuscite a conservare l’impostazione architettonica tradizionale, pur garantendo modernità e funzionalità.
Là vicino sorgeva l’albergo Paradiso, su una curva, a poca distanza anche dalla sontuosa e monumentale struttura della velocissima nuova funivia.

Don Artemio quel giorno era molto nervoso, anzi di più, era quasi indemoniato, che per un prete non era proprio una bella cosa.
Sapeva che doveva farlo, era ‘obbligato’ dal suo ruolo sociale, ma soprattutto dalla sua missione religiosa. Quella roba lì, nella sua diocesi, davanti alle sue pecorelle smarrite, in modo così sfacciato, non la poteva accettare.

- Adesso basta!!, si era detto la sera prima, nella canonica che occupava ormai da anni.
Era da tempo che la coscienza confessionale lo tormentava.
Intendiamoci, Don Artemio era un uomo di mondo, non certo uno di quei pretini di provincia che si nascondevano dietro la loro veste talare e nemmeno un bigotto e ottuso servitore della chiesa. Aveva le sue belle ribellioni e soprattutto sapeva stare in mezzo agli uomini, comprendendone le difficoltà, le paure e i diffusi cedimenti.
Quindi, quando quella mattina era partito con determinazione per andare in visita al Paradiso, non si sentiva un cavaliere mandato alle Crociate e soprattutto non aveva alcun obiettivo censorio. Non si sentiva la Santa Inquisizione, con la stanza di tortura pronta per far confessare il sacrilego di turno.
Si sentiva solamente un uomo di Dio, che nella sua missione voleva risolvere una questione che ormai era sulla bocca di tutti nella valle e che stava diventando spinosa. E aiutare, soprattutto aiutare, chi ne aveva bisogno, magari senza saperlo.
In paese anche chi non credeva, chi aveva sposato l’agnosticismo, chi diceva di credere ma di fatto se ne fregava altamente, chiunque insomma, riconosceva in quest’uomo un equilibrio ‘laico’ e una disponibilità insoliti per un rappresentante della Chiesa di Roma.
E questa vicenda era pericolosa, molto pericolosa, soprattutto per lei, la Silvana, ormai additata e derisa, sebbene con velata discrezione. Si sa, in situazioni come queste, l’uomo è un marpione furbacchione che la sa lunga, la donna è irrimediabilmente zoccola. E addio core, come si direbbe a Roma.
Ed era impossibile, pensava il sacerdote, che lei non si fosse accorta di cosa le girasse intorno, di cosa si dicesse nella comunità.

Spinse la pesante porta di entrata dell’albergo e nella penombra della piccola hall d’entrata accennò un - Permesso? C’è qualcuno?, rimanendo in attesa, rispettoso, di un qualche cenno di vita.
La fine di settembre, in mezzo alla settimana, era ormai stagione morta, nessun cliente, qualche fornitore dell’ultim’ora e la proprietaria intenta alle manutenzioni, a pensare alle azioni commerciali dell’imminente stagione invernale, a programmare attività extra come ospitare qualche evento nella sala riunioni che completava la struttura e che era una delle poche a disposizione in valle.
La Silvana comparve in fondo al corridoio, bella come sempre e sempre elegante nel portamento.
Abbassò la testa per scrutare, nell’ombra, di chi fosse quella figura scura in controluce. 
- Ah, reverendo, che sorpresa, si accomodi, si sentì urlare lei stessa, in un mal riuscito tentativo di mascherare il nervosismo. - Come sta?

Lui la guardò e si trovò improvvisamente a pensare che ormai più nessuno, accogliendo un prete, lo invitava con un rassicurante ‘sia lodato Gesù Cristo’ a cui il prete stesso rispondeva ‘sempre sia lodato’. I tempi erano proprio cambiati e forse in peggio.
Ricacciò in fondo il pensiero e sorrise alla donna che gli veniva incontro, tendendo una mano.

- Buongiorno Silvana, io bene, e lei?, ricambiò il saluto, e la stretta di mano. Voleva essere una semplice risposta di circostanza ma suonò come una sottile minaccia e per questo Don Artemio si adombrò verso se stesso. 

E lei capì subito che non era una visita di cortesia, anche perché si contavano sulle dita di una mano le volte che il prete aveva superato la soglia dell’albergo, in quegli anni. E quasi tutte concentrate quando il suo ‘indimenticabile’ marito aveva lasciato questa valle di lacrime.
Si armò subito, nell’attesa di ricevere l’attacco e difendersi. E anche contrattaccare, se fosse stato necessario. Ne aveva viste troppe nella vita e sapeva come difendersi. Anche dai preti.

- Bene, grazie, si tira avanti.
- E il Massimo come va?
Il figlio della Silvana, ormai salvo da suo padre, aveva quindici anni, in quell’età in cui qualsiasi cosa pensi, qualsiasi cosa fai, qualsiasi cosa non fai, il risultato è comunque un disastro. L’adolescenza non era solo prerogativa dei giovani cittadini sempre più socialmente monitorati e irrequieti, ma era una questione aperta anche in quella valle incantata. A quindici anni vivi una vita d’inferno e, peggio, la fai vivere difficile anche a chi ti sta intorno.
- Sta bene grazie, è a Sondrio, a scuola, per fortuna. Non voleva fare le superiori, ma io mi sono imposta e un giorno mi ringrazierà, ne sono certa.

- Sono d’accordo e se tutto va bene farà anche l’università. Il Massimo è un bravo ragazzo, sveglio e intelligente. Ha un futuro. Prima o poi spiccherà il volo da qui e si conquisterà un posto al sole nel mondo.

Lei gli fu grata.
Non solo si era spaccata la schiena per quel ragazzo, ma aveva investito anche tutta la sua forza e saggezza per fare in modo di spianargli una vita diversa, senza costrizioni e obblighi, più libera. E la libertà la conquisti solo se conosci, se studi, se sei in grado di comprendere il mondo in cui vivi, per saperlo combattere e cambiare se non va bene.

- Grazie Don Artemio, bellissime parole che mi allargano il cuore. Speriamo che tutto vada bene.
Si guardarono negli occhi. E allora lei chiese decisa:

- Come mai da queste parti?

- Potrei dirle che passavo di qui per caso, potrei dirle che cerco una stanza per una lontana parente che deve venire in visita, potrei dirle che il vescovo ha bisogno della sala per un evento pubblico, ma le racconterei un sacco di storie.

- L’avevo capito. Qual è il problema? È la prima volta che mi fa una visita così, imprevista. E sono anni che ci conosciamo - rispose la bella castellana, sempre più arroccata e sul chi va là.

- Berardi, rispose il servo di Dio. Senza fronzoli, senza girarci intorno.

Non se l’aspettava. E adesso cosa c’entrava il Berardi, pover’uomo?
Una serie di rughe funeste erano comparse sulla fronte della Silvana, come se volesse aprire una sottile disputa, o meglio un litigio della madonna. Che visto l’interlocutore ci poteva anche stare.
Don Artemio se ne accorse e si rese conto della sua scarsa propensione alle pubbliche relazioni; e soprattutto alla delicatezza. Eppure era da tutti riconosciuto come una persona sensibile, abile nell’affrontare situazioni difficili. Come mai in quell’occasione si sentiva così inadatto?

- Mi scusi Silvana. E abbassò gli occhi, in segno di resa.
Si girò su se stesso, con il chiaro intento di guadagnare il più velocemente l’uscita, per fuggire dall’imbarazzo in cui si era infilato, tutto da solo.
Lei lo fissò, vide i suoi tacchi girare, vide il sacerdote ingobbirsi nel vano tentativo di scomparire, vide la porta aprirsi, vide l’uomo sfilare letteralmente all’esterno.

- Ma no, Don Artemio, dove va? urlò la Silvana, appena ripresasi dalla sorpresa.
E lo rincorse fino all’aperto, sulla strada che il prete aveva velocemente già cominciato a percorrere.
Lo raggiunse, gli toccò delicatamente la spalla, per attirare la sua attenzione.
Lui si voltò, lentamente, come fosse un replay televisivo. Si aspettava di vedere una donna furente e piena di rancore, pronta allo scontro verbale in strada, come nel peggiore immaginario provinciale.
Si guardarono negli occhi, a lungo, cercando di dirsi tutto senza l’uso imbarazzante delle parole. Una via di fuga, ecco cosa cercavano.

- Perché non torna dentro?, domandò la donna. Questa cosa va chiarita ora, non ci sarà altra occasione, pensò Silvana, indicando la porta d’entrata al prete.
L’uomo abbassò la testa in segno di resa e accettò l’invito.
Rientrarono a provarci di nuovo.

27.

Il maresciallo aveva messo da parte la cartolina dimenticandosi completamente della questione, anche perché questione proprio non c’era, aldilà delle curiosità sul passato.
Una cartolina di 40 anni fa e allora?
Una cartolina in provincia di Sondrio dall’Australia, può capitare no?
Un invito a cercare i canguri, e quindi?
L’aveva messa velocemente nella borsa da cui non si separava mai, in cui troneggiavano il suo portatile e un po’ di carte, molte delle quali inutili.
Quella mattina era arrivato in ufficio prima del solito, causa coppia di corvi nervosi che avevano pensato bene di regolare i loro conti proprio sotto la finestra dove lui e la moglie appoggiavano le loro povere membra ogni sera.
Quello scontro tra i due volatili si era protratto a lungo, fino a svegliarlo del tutto, nonostante l’ostinato tentativo di riprendere sonno visto che la luce naturale era ancora timida e sfuocata.
Niente da fare. A un certo punto, sbirciando la moglie che invece si faceva beffa degli scontri tra i pennuti e dormiva della grossa, si era alzato e in vestaglia si era precipitato in giardino per scacciare i due contendenti. Che se ne erano volati via, beccandosi convulsamente in volo.
Era furioso. Anche perché aveva intravisto una sorta di ghigno irridente tra i becchi dei due volatili, come se la cosa fosse uno scherzo che partiva da lontano, da un altro mondo, che gli aveva dichiarato guerra.

Arrivato in ufficio così presto, la stazione era praticamente ancora vuota. I commilitoni che dormivano nelle stanze soprastanti non erano ancora scesi negli uffici e il piantone che era di guardia era più di là che di qua.

- Forza Russo, sveglia!!! gli urlò deciso mentre entrava.
Russo era un bravo ragazzo, della provincia di Caserta, catapultato tra i monti direttamente dai corsi di addestramento della benemerita. Un ragazzo sveglio, con tanta voglia di uscire dal suo mondo e con la testa sempre pronta. Ma dal lento risveglio. Si sa, a ventidue anni…
- Comandi!, rispose il ragazzo scattando sull’attenti e incespicando sulle parole. - Desidera un caffè?

- Buona idea Russo, fallo e portamelo nel mio ufficio. Ma con due tazzine, una è per te. Prima che il mondo si svegli, prendiamoci dieci minuti di pausa.
Russo diventò come un peperone, scattò sull’attenti per l’ennesima volta e si eclissò negli spazi dedicati alla cucina per sfoderare tutta la sua abilità nella preparazione di un caffè come si deve.
Il maresciallo, dopo avere conquistato il suo ufficio, accese la luce, armeggiò per collegare il computer, aprì la posta, lesse le principali notizie strillate dal suo sito d’informazione preferito e affondò le mani nella borsa alla ricerca dei documenti che si era portato a casa la sera prima per “smarcare un po’ di burocrazia”, quando si ritrovò attaccata alla mano la cartolina.

28.


- Qual è il problema?
La Silvana fissava negli occhi il parroco, senza abbassare lo sguardo, diritta e diretta, pronta a difendere se stessa, il suo uomo, la sua avventura e la sua felicità. Ne aveva già viste troppe nella vita, aveva subito già di tutto e quindi era forte come un leone e di certo non la spaventava un pretino di campagna neanche troppo grosso.
Ma anche Don Artemio non era da meno, intendiamoci.
Anche lui aveva dovuto combattere nella vita, sempre al centro della comunità, sempre al suo servizio. Prete sì, ma mica pirla.
Sostenne lo sguardo, non tanto per una sorta di braccio di ferro virtuale, ma semplicemente per far capire che lui c’era, aveva un compito, o meglio una missione e nessuno, tanto meno una giovane mamma dal piglio deciso, l’avrebbe intimorito.
- Don Artemio, mi ha sentito? chiese la Silvana dopo che il prete si era accomodato nella hall vuota dell’albergo. - Cosa c’entra il Berardi?

- Mia giovane signora, il Berardi c’entra più con lei che con me, rispose con dolcezza il parroco.
Il Berardi gli era molto simpatico. Un uomo pulito, onesto, corretto, la sua fama era giunta fino in parrocchia.
E Don Artemio allora, un giorno, aveva voluto incontrarlo.

- Voglio proprio conoscerlo questa perla d’uomo, aveva detto un giorno, anche con una punta di naturale diffidenza per tutte queste chiacchiere positive. E quando tornò in parrocchia dopo l’incontro era diventato uno dei più convinti sostenitori dell’uomo di Morbegno dal cuore grande.

Ma oggi le cose erano cambiate.
Da uomo poteva anche capire che i matrimoni potessero cadere in disgrazia, poteva anche comprendere che il richiamo della carne a volte facesse brutti scherzi, ma da rappresentante della Chiesa non poteva accettare che si mettesse in discussione il matrimonio, che lo obbligassero a passare sopra a un rapporto extra-coniugale come quello e soprattutto non poteva accettare di fare la figura del fesso di fronte alle sue pecorelle smarrite.
Insomma, ora basta!
E glielo disse, alla Silvana, chiaro e tondo.
E lei incassò.

29.

Se la rimirò, la cartolina, soprattutto per la splendida silhouette del teatro sidneyano che troneggiava sul davanti. L’Australia era un sogno ormai lontano e quasi dimenticato.
La cartolina emanava un fascino tutto particolare, del tempo, quasi fosse un reperto archeologico.
Ma chi era questa P., che firmava la cartolina? Perché sembrava una scrittura femminile, sebbene di gallina, e soprattutto, salvo errori di lettura e di interpretazione, il destinatario pareva chiamarsi R qualcosa, sicuramente finiva con una O. Da donna a uomo, pensò il maresciallo, con un’elementare intuizione che lo portò a sorridere di se stesso e della sua capacità deduttiva degna di un investigatore da libri gialli.
E non si riusciva neanche a leggere correttamente il cognome del destinatario. Se si univa la scrittura incomprensibile all’usura del tempo, il risultato era abbastanza deprimente.
Iniziava con la B, c’era un A nel mezzo, e forse finiva con una E, o che altro.
Ma chi diavolo poteva essere?
Il carabiniere Russo entrò proprio mentre il Pandolfi si poneva il quesito.
Russo guardò a lungo il maresciallo, che con il volto rivolto alla finestra era in una sorta di simbiosi con le montagne, con il cielo, con la luce che avanzava. Aveva in mano una cartolina.
Il carabiniere, di rimando, sorreggeva una sorta di vassoio - probabilmente in dotazione all’Arma dai tempi del Cavour - sul quale campeggiavano due piccole tazzine per il caffè con i piattini d’ordinanza, disposte una di fronte all’altra, come se fossero pronte per essere unite in matrimonio, con la moka nell’insolito ruolo di officiante della funzione e la zuccheriera nel ruolo un po’ defilato del testimone.
La caffettiera sbuffava ancora ed emanava quell’aroma meraviglioso e familiare del caffè appena fatto.
Russo era immobile, al centro dell’ufficio del maresciallo, incapace di fare un passo avanti né uno indietro e troppo giovane d’anagrafe e di servizio per segnalare la sua presenza con un improvviso colpo di tosse o meglio ancora con un chiaro e tonante ‘Ecco il caffè!’ che avrebbe risolto tutto.
Il maresciallo distolse lo sguardo dal Pizzo che dominava da millenni la valle, continuando a picchiettare la cartolina sulla scrivania.

Annusò l’aria e capì che il caffè aveva conquistato la scena, si voltò verso Russo, gli sorrise e senza aprire bocca, con la mano aperta, fece segno di appoggiare sulla scrivania il vassoio.
- Russo, da quanto tempo era lì? Se non mi volto rimane come una mummia in quella posizione fino alla pensione?, gli chiese con affettuosa ironia il Pandolfi.
Russo sorrise imbarazzato, allungò la zuccheriera verso il maresciallo, gli porse la tazzina e cominciò a versare il liquido fumante, fin quasi all’orlo.
Il maresciallo osservava la scena ma si capiva benissimo che aveva la testa da un’altra parte.

- Russo, non sei mai stato in Australia? gli domandò a bruciapelo.

- Maresciallo, io sono stato un paio di volte a Napoli, al mare dalle mie parti e poi ho visto Sondrio e questo paese in fondo al mondo....
Questi ragazzi del sud, pensò il Pandolfi. Un tempo sceglievano l’arma come una delle poche possibilità di avere un futuro, accettavano tutti i trasferimenti di prammatica, si allontanavano dalle loro famiglie, toccavano mondi lontani anni luce dalle loro tradizioni e abitudini. E prima o poi tornavano a casa.
Oggi la loro scelta era più consapevole ma soprattutto alcuni erano molto più determinati dei loro coetanei originari del nord, volevano crescere in fretta, conquistare un posto nel mondo, guadagnare bene e vivere una vita da protagonisti.
Russo era uno di quelli. Timido sì, soprattutto con il suo comandante, ma con lo sguardo fiero di chi sa cosa vuole. E con l’intelligenza svelta e superiore di chi sa che la vita non ti viene incontro mai, ma la devi saper affrontare tu.
Al comandante Russo piaceva, molto, vedeva in lui se stesso nei primi anni della sua carriera. Incognita per il futuro, entusiasmo, sogni e volontà di ferro.
E, dopo due anni che lavorava alla stazione di Chiesa, gli si era affezionato e l’aveva messo sotto la sua ala protettrice, perché riconosceva in lui un futuro comandante.

- Buono, disse cominciando a sorseggiare il caffè. E allontanò dalla mente il cliché del campano che sa fare il caffè e il nordico no. Tutte storie. Come la questione dell’acqua, anche quella una bufala ben studiata. Il caffè è buono se è buona la miscela e chi lo fa è bravo a farlo. No all’acqua oltre il filtro, caffettiera aperta in attesa dell’emersione, spegnere il fuoco appena è uscito in modo da non bruciarlo, e mescolare il tutto prima di servire. Il resto sono balle, rosse e gialle. Sembrava gli fosse anche salita un po’ la pressione, mentre se la raccontava!
Il giovane carabiniere lo guardava con un grosso punto di domanda disegnato sulla faccia - Ma a cosa sta pensando? -, mentre il suo pensiero andava a riflessioni più profonde che oscillavano tra ”come è brutto invecchiare” e “lascia perdere tanto non è importante”.
Finirono il caffè.
E immediatamente il comandante cominciò a sventolare la cartolina sotto il naso del povero carabiniere.

30.

Insomma, la storia clandestina conosciuta in paese, ormai era diventata patrimonio di tutti; ma soprattutto era ormai oggetto di pettegolezzi caustici, di colpi di gomito e di giudizi duri e inappellabili.
Don Artemio aveva lasciato la vedova dopo un colloquio, un lungo confronto di più di un’ora che aveva sancito una salda e solida certezza: i due si erano avvicinati, molto di più di quanto fosse pensabile prima.
Il prete, che bonariamente ma con fermezza, rimproverava alla signora che la relazione con un uomo sposato, così alla luce del sole tra l’altro!, non era moralmente accettabile e socialmente insostenibile.
Lei, ormai vaccinata a tutto, aveva solo messo davanti alla morale, alla società e al paese tutto la sua felicità - reclamata da anni - e quella del suo uomo.
E la loro chiacchierata si era conclusa, contro ogni previsione, con un colpo di scena, anche se difficilmente comprensibile.

- Mi dica, Don Artemio, lei mi sta dicendo che io dovrei gettare al vento tutto ciò per non so quale legge, divina o terrena che sia, che porterebbe due persone felici alla definitiva infelicità? Lei mi sta dicendo di buttare tutto alle ortiche perché qualcuno si è inventato una regola ipocrita? Lei crede veramente che un dio possa volere questo dalle sue pecorelle smarrite? Tuonò la bella albergatrice con un volume di voce crescente.
Don Artemio non era stupido, anzi. La sapeva lunga. E colse benissimo l’ironia velenosa delle ‘pecorelle smarrite’.
Non volle prenderla troppo larga. Guardò negli occhi la sua interlocutrice, le prese le mani tra le sue e con voce calda e rassicurante le sussurrò:

- Figlia mia, le pare che un dio, qualsiasi nome abbia, possa volere questo?
L’aveva salutata cordialmente, si era girato e se ne era andato. Senza lanciare anatemi, senza minacciare e senza chiudere nemmeno una delle porte che nel frattempo si erano aperte.
Lei lo guardò allontanarsi, mentre prendeva la strada in salita, contrariamente a quanto avrebbe fatto lei, per raggiungere la chiesa.
Ma si sapeva, a Don Artemio piaceva camminare, aggirarsi, incontrare, parlare, e anche scassare l’anima ai suoi parrocchiani, senza preavviso.
Lei lo fissò, con la bocca semi aperta, con quell’espressione un po’ ebete di chi è rimasto di sasso, soprattutto di chi non ha capito una mazza di quello che l’uomo intendesse.
Rientrò, domandandosi:
- Cosa avrà voluto dire?

31.

L’autunno ormai era arrivato in valle.
Le giornate si accorciavano a vista d’occhio, l’aria cominciava a farsi più fresca, più ricca, riempiva i polmoni avvolgendoli con la sua purezza.
Ma soprattutto, i colori.
Le pinete che circondavano e riempivano ogni angolo della valle avevano cominciato a chiazzarsi di colori gialli e talvolta rossi, mentre i sempreverdi si assumevano il ruolo di garanti cromatici della continuità naturale.
Le montagne e le pareti risplendevano al sole o alla pioggia come rare pietre preziose incastrate nelle rocce di una miniera.
E poi c’era il cielo.
Nelle giornate serene e terse assumeva quel colore azzurro un po’ melanconico in cui la natura si buttava a capofitto per sparare le sue ultime cartucce prima della lunga e sonnolenta pausa invernale.
E nelle pause con nubi, pioggia e qualche primo assaggio di neve - sempre più frequenti - il cielo si addormentava, ingrigito, bagnato, distratto.
Il torrente, che disegnava la valle, cominciava mostrare segni di irrequietezza e di preoccupazione nell’attesa della naturale diminuzione di acqua che arrivava dall’alto. Il suo suono, vera melodia, riempiva la valle come una colonna sonora costante, senza acuti, rassicurante.
Era uno dei periodi più belli dell’anno, quando la Valmalenco dava il meglio di sé.

32.

Don Artemio, lasciata la Silvana, inforcò la strada, quella in salita. E non perché volesse predicare, rabbonire, convocare, castigare o assolvere. E nemmeno fare della ginnastica. Aveva solo voglia di allungare la strada per poter pensare in santa pace, da solo.
Il colloquio con la Silvana gli aveva messo addosso una sensazione di disagio.
E non verso di lei, povera donna.
Verso se stesso, verso l’atteggiamento che aveva mantenuto durante quel colloquio.
Partito lancia in resta almeno per ammonire e interrompere l’oltraggio che si stava perpetrando sotto i suoi occhi, appena la Silvana lo aveva richiamato quando aveva cercato di allontanarsi dopo la prima incomprensione, aveva capito in un attimo che la donna non stava scherzando, che era innamorata del Berardi, che stava con passione e tenacia crescendo il proprio figlio, forse non timorata di dio, ma sicuramente con saldi principi morali e sensibilità sociale.
Era uno scenario che non aveva proprio contemplato, prima dell’avvio della sua visita all'albergo.
E soprattutto non aveva considerato che dopo l’incontro avrebbe potuto mettere in discussione le proprie convinzioni e, diciamolo, i propri dogmi, ritrovandosi bello e candido schierato dalla parte della coppia, contro ogni convenzione sociale e diktat teologico.
Non andava bene, pensò, proprio per nulla. Non poteva andare bene.
E se ne resero conto anche i suoi parrocchiani, che dalle finestre o incrociandolo per la strada, videro un insolito Don Artemio ingobbito e follemente a colloquio con se stesso a voce alta.
- Il Don lè diventà matt!, diceva uno.
- Magari matto no, gli rispondeva un'altra, ma sicuramente deve essere successo qualcosa.
Lui non se ne curava, seguiva i suoi pensieri, i suoi ragionamenti, le sue lotte intestine.
E i suoi passi.
Giunse in parrocchia finalmente. Entrò in chiesa, raggiunse i primi banchi davanti all’altare, alzò la veste talare e si inginocchiò. O meglio crollò in ginocchio di fronte al suo dio, alla ricerca di certezze, di conforto e di un po' di ascolto.
E almeno quest’ultimo lo trovò, tra le pieghe dell’anima.
Ma il travaglio era forte, lungo e portava via il fiato.

33.

Una disputa per il confine di una proprietà aveva assorbito per qualche giorno il maresciallo Pandolfi.
Antiche rivalità, retaggi di litigi ormai persi negli anni e antipatie odierne avevano portato all’esasperazione una vita in comune che ormai di comune non aveva più nulla.
Il maresciallo aveva lasciato correre per mesi, confidando in un appianamento e in una soluzione amichevole che avrebbe reso tutto più semplice.
Come abbiamo detto più volte, l’uomo era anomalo rispetto all’immagine classica del comandante di stazione dei carabinieri, ma quando era necessario sapeva tirare fuori la grinta e soprattutto autorità per risolvere in pochi minuti situazioni trascinate e a rischio degenerazione. E per questo era molto amato.
Aveva urlato, picchiato pugni sul tavolo, minacciato di arresto e di azioni legali...fino a quando le cosiddette ‘parti’ si erano almeno formalmente, messe d’accordo, mettendo una pietra sopra a ogni disputa.

- Ok, disse il maresciallo lasciando il luogo del ‘delitto’. - Vi lascio con un accordo ormai siglato. Non voglio più sentire nulla su questa storia. Sennò sono guai.
E se ne andò sbattendo la porta, soddisfatto di aver fatto il poliziotto cattivo senza il bisogno di avere il suo contraltare buono.
E soprattutto contento di avere chiuso con questa storia che ormai gli rompeva l’anima da troppo tempo.
Per scendere al paese serviva un quarto d’ora a piedi, tra sentieri e betulle, tra colori sgargianti e uccellini che si godevano gli ultimi sprazzi di autunno prima di andarsene con l’arrivo dell’inverno.
Il maresciallo discese verso il paese con passo lungo e marziale, facendo attenzione alle pietre bagnate.
Questi momenti di solitudine, di libertà assoluta, gli consentivano di fare il punto, di spingersi in analisi azzardate, a volte anche di risolvere casi o questioni aperte.
E la mente, inevitabilmente, volò alla cartolina, all’Australia, a quella firma incompleta e incomprensibile, a quel messaggio enigmatico e criptico che chissà cosa diavolo voleva dire.
Non era una pratica ufficiale, non c’era alcun reato all’orizzonte, non c’era alcun caso, ma la faccenda lo incuriosiva.
Soprattutto perché era una cartolina di oltre quarant'anni prima, sopravvissuta a più vite, che nascondeva forse un mistero. Sicuramente un passato.
E Pandolfi decise, in via ufficiosa, con grande discrezione e anche in punta di piedi, di ficcarci il naso.

34.

Una cartolina lo inquietava? Un’ossessione? Una paura? Ma insomma...un uomo così grande grosso...un maresciallo dei Carabinieri!
Eppure era così.
Tutto frutto di quell’esperienza maledetta che il comandante aveva vissuto durante la sua permanenza in Friuli, in quel paese in culo al mondo, per alcuni mesi e che sembrava non riuscire a risolvere in alcun modo.
Un serial killer che annunciava le sue belle imprese con una cartolina alla vittima, o meglio al proprietario della vittima.
Perché infatti, lo psicopatico, aveva cominciato ad ammazzare vacche e maiali dei diversi allevatori della valle, avvertendo prima tramite cartolina postale. Tutte rigorosamente con immagini marine, come una sorta di contraltare al terreno di guerra, a stalle e a cumuli di letame.
La ‘vittima’ si vedeva recapitare a casa, dall’itinerante postino, tra bollette e cartelle di Equitalia, una cartolina che in modo enigmatico minacciava azioni delittuose nei confronti delle sue poche, o tante!, bestie che faticosamente allevava e curava tutti i santi giorni che dio mandava in terra.
All’inizio nessuno prese sul serio i messaggi minatori, poi quando cominciarono a trovare animali sgozzati nelle stalle tutto divenne improvvisamente e drammaticamente reale.
E allora i carabinieri vennero prima coinvolti, poi attesi visti gli scarsi risultati, poi derisi e additati di incompetenza visto che la cosa non si risolveva e le esecuzioni continuavano in modo efferato.
Il maresciallo aveva avuto gli incubi, non riusciva a venirne fuori e ogni notte, per oltre un mese, aveva avuto la sensazione di non essere all’altezza del suo lavoro, di aver perso la capacità di seguire l’intuizione giusta. E meno male che le vittime non erano uomini!!
Quelle cartoline erano veramente un’ossessione, oltre che ormai la prova provata della sua incapacità professionale.
Poi un giorno, come se si fosse risvegliato da un lungo letargo, improvvisamente comprese tutto, arrestò il pazzo - figlio di allevatore andato all’aria che imputava ai concorrenti della zona la colpa del fallimento - e risolse il caso riacquistando fiducia in se stesso e il ruolo di tutore della legge della valle.
Ma la cartolina era rimasta pericolosamente un elemento di disturbo, che non sarebbe mai scomparso dalla mente del militare.

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