Capitoli 35-45

35.

Il Berardi arrivò a Chiesa un giorno prima, quella settimana. Senza motivo particolare.
O meglio, il motivo c’era. La voglia di lei.
Quando era a Morbegno, a casa, ormai si sentiva sempre più schiacciato, triste e solo.
La Silvana gli aveva devastato il cuore. I suoi occhi azzurri, il fisico asciutto e quelle spalle l’avevano costretto a cedere.
Proprio così, costretto, almeno questo era quello che si raccontava per uscire dai sensi di colpa e per non troncare una delle cose più belle che la vita gli aveva messo davanti.

- E tu cosa ci fai qui oggi? arrivando al Paradiso con il suo trolley d’ordinanza e l’andatura baldanzosa di chi sogna momenti di estasi con la sua donna. - Mica è martedì oggi, o sbaglio?

Il Berardi arrivava quasi sempre il martedì, per fermarsi in valle fino al giovedì, per rientrare la sera stessa e avere il venerdì e il lunedì liberi per seguire gli altri lavori e cantieri in bassa valle e vicino al lago. E per fare visita a sua moglie.
Grazie al lavoro per la piscina - che sarebbe durato almeno qualche mese - si era ritagliato un mondo di libertà e felicità della durata di un paio di giorni la settimana, nel mezzo, riservando il weekend ai doveri familiari.

- Non riuscivo a stare lontano da te, bisbigliò all’orecchio della signora, rilasciando un furtivo e umido bacio sul suo collo.

- Poche balle, c’avevi da fare su al Valtellina, altro che nostalgia.

E invece era vero. Aveva brigato, costruito e inventato per tutto il weekend per partorire una storia plausibile che scusasse la sua partenza anticipata.
E aveva pensato di farle una sorpresa, senza rivelarle nulla, conscio che fare sorprese di questo tipo alle donne è sempre un rischio che spesso non vale affatto la candela.

- Balle un corno. Sono venuto qui oggi per te. Non riuscivo a pensare ad altro che a tenerti tra le braccia. Se vuoi me ne vado..., aggiunse laconico.

Apriti cielo! Manco fossimo in Via col vento, manco fossero lui Rhett e lei Rossella e la Valmalenco fosse improvvisamente diventata un territorio dell’Unione.
Lei si sciolse, fino alla commozione, e lo abbracciò per allungargli uno di quei baci appassionati che spesso regalava al suo compagno.
Benedetto amore!, pensò lui.
Che uomo che mi sono trovata! pensò lei.
Il teatrino delle mille bellezze finì presto.
Anche perché lei lo trascinò su per le scale dell’albergo, per raggiungere l’ultimo dei tre piani dell’edificio dove si trovava la dimora privata della proprietaria.
E in salotto, senza neanche attendere di raggiungere un comodo letto, fu tutto un rincorrersi di mani, di bottoni slacciati, di lingue alla ricerca di altri sapori, di languidi gemiti, conquistando spazi impensabili su un divano non proprio adatto all’occasione. Insomma, una scopata - con tutto il resto - come si deve, dolce e turbolenta come deve essere.
E fu proprio in quel momento che il cellulare del Berardi cominciò, in modo insistente e petulante, a suonare, facendo comparire sul display il nome del chiamante.
E il Berardi, al culmine del suo amplesso, sbirciando il telefono, pensò:

- Cazzo avrò mai fatto?

Era il maresciallo Pandolfi che chiamava, e intimava attenzione.

36.

Quando l’Arma chiama, il cittadino risponde. E poche balle.
Il Berardi, però, a quella telefonata - inopportuna, indelicata senza ombra di dubbio - non voleva e non poteva rispondere.
Eccheccavolo, mentre sei a letto con la tua donna, che tra l’altro è una bomba di creatività, che ti sbrana con una sola occhiata, come fai a interrompere tutto, schiarirti la voce, schiacciare qualche pulsante e rispondere dicendo cose che abbiano un senso?
Ma sapeva che l’avrebbe pagata, prima o poi.
E la pagò, infatti, qualche giorno dopo.

- Berardì? si sentì urlare dentro al telefono quando rispose dopo qualche giorno alla chiamata delle chiamate.
Il maresciallo, elegantemente irritato, dall’altra parte del cavo, lo aveva richiamato dal fisso, proprio per non dargli la possibilità di riconoscere chi chiamava e quindi, eventualmente, di non rispondere un’altra volta.
L’imprenditore si raggelò. - Il maresciallo, porca miseria, mi sono scordato di richiamarlo, pensò alla velocità della luce.
- Maresciallo, qual buon vento?

- Una furia di tramontana, con folate a 100 all’ora, altro che vento. Berardi, io la chiamo, lei mi ignora e soprattutto manco mi richiama. Aldilà dell’Arma, ma non le sembra un po’ cafone? Ho fatto qualcosa che l’ha offesa? sciorinò gelido il comandante.
Non erano amici, ma si rispettavano, e dopo un periodo di rodaggio avevano raggiunto una certa confidenza.
Che figura di palta, pensò ancora il Berardi. Cosa gli propino?, si disse. Una scusa che non sta in cielo né in terra, oppure mi scuso e la faccio finita?

- Mi perdoni, Pandolfi. Quando mi ha chiamato non potevo rispondere e poi mi è passato di mente. Spero che per questo motivo non mi arresti, aggiunse il Berardi, cercando di fare lo spiritoso.

Il maresciallo stette in silenzio. Un vuoto colmo di tensione e di incognita.
Poi scoppiò a ridere e tutto si risolse con quattro battute di rimando.

- Di cosa voleva parlarmi? gli chiese.

- Ho bisogno di affrontare con lei una questione, diciamo, di natura storica. Devo farle delle domande su Chiesa quarant’anni fa.
Urca, pensò l’imprenditore. Quarant’anni? Ma io quarant’anni fa non avevo neanche dieci anni, si ritrovò a contare, anche con l’ausilio delle dita.
Non è che ne sappia molto, continuò a pensare. Ma a quel punto non poteva che mostrarsi disponibile.

- Quando vuole maresciallo, per quello che la posso aiutare. Vengo in caserma da lei?

- No grazie, nulla di ufficiale. Vediamoci al BarCentro la prima sera che è a Chiesa, settimana prossima, all’ora dell’aperitivo. È una chiacchierata amichevole, ho bisogno solo di chiarirmi alcuni dubbi.

- Ok, mercoledì prossimo allora, prima non riesco, rispose.
Si lasciarono così. Ma il Berardi rimase con il cellulare in mano per qualche secondo, come incantato, domandandosi di cosa volesse parlargli il maresciallo e cosa potesse avere a che fare lui con un passato così lontano.
Spense il cellulare e tornò al suo lavoro, subito immerso tra capicantiere che chiedevano attenzione, carte di progettazione, calce sugli scarponi e freddo insistente che ormai cominciava a entrare nelle ossa.

37.

Al BarCentro la discussione ferveva.
La discussione si incendiava anche, fino a rompere le balle a tutti gli altri.
Uno alzava la voce, uno picchiava un pugno sul tavolo con assertività, un altro ancora che si alzava ogni due per tre con relativo e insopportabile rumore di gambe di sedia che sfregano sul pavimento. E poi tutti insieme che parlavano, discutevano, gesticolavano, si agitavano. Senza che nessuno, ma proprio nessuno, ascoltasse l’altro.
Con grande disappunto del signor Rosatti, il proprietario, che ogni volta che quei perdigiorno occupavano un tavolo per tutto il pomeriggio, o peggio, per tutta la serata, gli veniva la voglia di passare alle vie di fatto, fino a sbatterli tutti fuori, non dalla porta! ma direttamente da una delle vetrine che davano sul corso centrale del paese.
E l’argomento, ormai da un po’ di settimane, era sempre quello, quello lì.


- Mi hanno detto che il prete è andato a trovarla, direttamente all’albergo, introdusse il Monatti, assumendo senza che nessuno gliel’avesse chiesto il ruolo del moderatore della pressante e imminente disputa verbale.

- Perché, non doveva? gli rispose il Mascherpa.

- Certo che doveva, la situazione è diventata insostenibile, contestualizzò il Mambelli.

- Il problema, mi ha detto mia cognata che la sa lunga, è che sembra che non abbia concluso niente. Anzi, ci abbia messo anche un asso di denari come carico, concluse il Riva, sfogliando l’ultima edizione di Centrovalle.
Le voci in paese erano girate come un fulmine, avevano superato cime ostili, guadato torrenti impetuosi, attraversato muri spessi secoli, zigzagato tra larici e pini.
Molti supponevano, nessuno sapeva ma soprattutto tutti parlavano, sostanzialmente a vanvera.
Una cosa era certa, a detta dei più informati. Don Artemio aveva fatto visita per spaccare tutto - angelicamente, s’intende… - ma era uscito con una convinzione diversa. Anzi opposta.
- Cioè? domandò il Monatti, quello che sembrava sempre che non capisse una mazza.

- Cioè un tubo, gli rispose il farmacista. - Cioè, Don Artemio ha fatto marcia indietro e si è schierato dalla parte dei due amanti, con sommo disappunto di tutto il paese e prima o poi del vescovo, statene certi.

- Si potrebbe concludere - chiosò il Mambelli - che ha vinto l’amore!!! E io, se proprio chiedete il mio parere, sono d’accordo con lui.

- Guardi, del suo parere possiamo farne volentieri a meno, lo schernì il Mascherpa. 

- È già sposato, porca miseria!, commentò dalla cassa il signor Rosatti. 

- Sì, sposato, con una donna ormai priva di vita, immobile, da anni. Se fossimo un paese civile simili situazioni non nascerebbero proprio, restituendo la dignità a chi ha vissuto e a chi gli resta accanto. È una cosa orrenda, concluse il Mascherpa, degna di un paese del quinto mondo, ammesso che esista.
Bisogna sapere, per onestà intellettuale, che al Bar Centro le discussioni e i confronti non erano proprio di altissimo livello. Gossip, veleni in libertà, calcio, donne, business locale e cotillons.
Ma non perché i personaggi protagonisti fossero baluba allo stato brado o persone prive di sensibilità e cultura. Perché quando era necessario, chi più chi meno, sfoggiavano conoscenze e opinioni che avrebbero fatto invidia a molti professionisti dell’intelletto.

- È sposato, e fine. Non può andare con un’altra donna. Fiiine! ribadiva il Rosatti, espressione di un mondo ormai morto.

Tutti si guardarono in faccia, ma nessuno proferì verbo. Non perché fossero tutti d’accordo con il proprietario, anzi!, non perché fossero concordi con il pensiero tanto chiaramente espresso dal Mascherpa, ma semplicemente perché tutto ormai era chiaro, definito.
Don Artemio, aldilà di eventuali ordini della curia, ormai ne erano tutti convinti, aveva definitivamente preso le parti di due persone che si amavano, alla faccia delle regole e delle convenzioni, spesso inutilmente sadiche.
E ora erano cavoli di tutti. Cavoli veri.

38.

Elena era un po’ che la curava, sua figlia.
Dopo qualche giorno che aveva buttato sul tavolo la cartolina australiana, Giulia era cambiata. Forse da una settimana. Al momento non aveva collegato le due cose, ma ormai se ne stava sempre più convincendo.
La curava e la osservava, ormai da giorni.
Era improvvisamente incupita, ti guardava da sotto gli occhi, ti evitava appena poteva.
L’autunno - che qui era già un po’ inverno - ormai padrone delle giornate, non aiutava. Ma Giulia aveva anche preso a uscire meno, a rifiutare gli inviti quotidiani del suo compagno di merende Mattia e della banda di disgraziati che la circondava.
Se ne era accorto anche suo padre, da sempre attento ma meno compagno quotidiano della figlia.
E una sera, dopo che la figlia era ormai a letto in balia dei propri sogni sempre più agitati, i due coniugi cominciarono un rapido e serrato confronto su cosa diavolo stava succedendo.

- Secondo te?
- Non so, non capisco.

- Indaghiamo?

- Indaghiamo.

- A scuola ci vai tu?

- Ok, io sento in giro in paese.

- ‘Notte.

- ‘Notte.
Più rapido e serrato di così…

Allora Elena cominciò a sentire prima alcune mamme di compagne di scuola. Con discrezione, senza farsi scoprire.
Se qualcuno avesse solo percepito che c’era qualche ‘mistero’ intorno alla figlia della marescialla oppure, peggio, proprio intorno al maresciallo, il fiume di parole avrebbe riempito la Valmalenco facendola diventare un lago alpino tra i più suggestivi della regione.
Le domande erano vaghe, sondavano il terreno, con il solo intento di far emergere eventuali fatti salienti che non erano arrivati alle sue orecchie, qualche guaio in classe, litigi, amori infranti e chissà che altro.
Ma ricevette solo risposte vaghe, che fotografavano una situazione di totale tranquillità, senza acuti. Un confortante mortorio, insomma.
Non si azzardava ancora a cercare un colloquio con i professori, era un passo più formale che si voleva riservare alla fine, quando non avesse avuto alternative.
Se la moglie doveva muoversi con cautela, il maresciallo doveva camminare sulle punte dei piedi facendo attenzione a non schiacciare le uova che cospargevano il terreno che doveva calpestare.
Era uno di loro, abbiamo detto. Amato, ma pur sempre un foresto. E quell’etichetta non se la sarebbe tolta mai, avesse anche vissuto per altri cent’anni.
La mattina dopo l’ermetico dialogo tra i due coniugi, il Pandolfi, contro ogni sua abitudine, in tarda mattinata, decise - per annusare l’aria - di permettersi un voluttuoso e ipercalorico crodino, come aperitivo.
Mai fatto.
E quindi quando lo videro entrare al BarCentro che non era neanche mezzodì, il bar si bloccò all’unisono, come se fosse necessario scattare una fotografia per immortalare il momento.

Tutti si zittirono, tutti si voltarono, tutti strabuzzarono gli occhi, tutti si diedero di gomito e tutti aprirono, in un’espressione ebete, la bocca: il Mambelli, il Riva, il Mascherpa, il signor Rosatti, il benzinaio alle prese con l’acquisto delle sigarette e il cameriere che stava cominciando ad allestire i tavoli nella sala dedicata al ristorante. Senza parlare del barista alle prese con un bicchiere appena lavato, che per evitare che si frantumasse al suolo dovette esibirsi in un numero da circo. Tutti fermi, immobili, fissi.
Lui si bloccò, ancora con la maniglia della porta in mano.
Si voltò anche per vedere se stesse succedendo qualcosa alle sue spalle, se la porta avesse preso fuoco, o peggio se avesse i pantaloni scuciti sulle sue terga ben fornite.
Ma tutto era regolare. Lasciò la maniglia, guardò quella platea imbambolata, si piazzò a gambe larghe al centro del bar e con voce baritonale chiese:

- C’è qualche problema? Aspettavate Sharon Stone? sbottò.
Li guardò uno per uno, tra il divertito e il preoccupato.
Il paese era piccolo, un luogo dove la gente sapeva tutto di tutti. Ma con riservatezza. La montagna è bellezza e colore, ma è soprattutto dignità, delicato distacco e spesso, solitudine.
Come se un regista avesse dato il ciak alla scena, tutti ripresero a ‘dire fare baciare lettera testamento’ quello che stavano facendo prima. Proprio come quando si schiaccia il tasto play dopo aver messo in pausa un video perché qualcuno, in famiglia, ha necessità, veloce, del bagno.
Si avvicinò al banco, gettò un’ultima occhiata alla variegata platea e si rivolse al barista come se fosse John Wayne in Ombre Rosse:
- Luciano, per favore, dammi un crodino.
- Subito signor maresciallo, rispose solerte il ragazzo del bar. Che contemporaneamente gli allungò le ciotole d’ordinanza con olive, noccioline salate e patatine stantie.
Poi fu tutto velocissimo.
Il maresciallo cominciò a girare per il bar, parlando con uno, rivolgendo domande a un altro, ascoltando un altro ancora. Grande maestria, grande professionalità unita a una capacità innata di recitazione e imbonimento del prossimo.
Straordinario.
Tempo di finire il crodino, allungare qualche mano di saluto agli astanti sempre più allibiti, commentare qualche notizia sul giornale locale aperto su un tavolo e il maresciallo riagguantò la maniglia e dopo un’ultima occhiata, se ne uscì dal bar con un balzo.
Ecco, l’indagine era finita. E lui non aveva scoperto nulla.
Il mistero si infittiva.

39.


- Pronto, Berardi?

- Amore mio, come stai? fu la risposta alla chiamata della sua Silvana. Inopinata, inaspettata. In genere si sentivano la sera, dopo che entrambi avevano concluso lavori e rotture di scatole quotidiane, e si erano ritirati nelle loro intimità.
In questo la tecnologia aiutava tantissimo e tra smartphone, tablet e computer, ci si poteva parlare a lungo, a bassi costi, pure guardandosi in faccia. E non era cosa da poco.

- È successo qualcosa?
Erano le quattro del pomeriggio, lui era in un cantiere della bassa valle, circondato da tecnici e manovali che attendevano con ansia alcune risposte. Non era il momento, ma non se ne curò.
Voleva solo urlargli nelle orecchie che lo amava alla follia, che anche se tutto era difficile una soluzione l’avrebbero trovata, che anche il parroco, sempre duro e ostile, di fatto aveva dato la sua benedizione ed era dalla loro parte, nonostante tutto.
Gli disse questo, alla velocità della luce, sparando a raffica parole e concetti, riempiendo solo un minuto della sua vita di quel pomeriggio. E senza aspettare replica, senza attendere neanche una sillaba da parte del suo amato compagno, riattaccò, bruscamente.
E appena lo fece scoppiò in una risata fragorosa che riempì la hall del suo albergo in modo anche un po’ sinistro e che fece accorrere il figlio Massimo dal piano di sopra preoccupatissimo di quanto stava succedendo.
Il Berardi rimase con il braccio a mezz’aria, il telefono in mano, gli occhi stralunati fino a quando un beffardo sorriso conquistò il suo viso, mentre il cuore cominciò a battere all’impazzata.
I suoi collaboratori, ammutoliti e immobili come statue, continuavano a fissarlo, restando in attesa di attenzione da una parte ma anche di spiegazioni.
Spiegazioni nisba, solo un po’ d’attenzione verso tutti, almeno per toglierseli dalle balle velocemente e richiamare la Silvana per riprendere quella conversazione meravigliosamente romantica, in modo riservato, nel container che fungeva da ufficio operativo.
La Silvana, pensava, mentre parlava di pavimenti e impianti, era una forza della natura. E per fortuna aveva scelto lui.

40.


- ...quindi, quando l’aria è calda si espande e sale. A differenza dell’aria fredda che invece…, ma la spiegazione della professoressa della classe di Giulia si interruppe violentemente grazie al cordiale, tanto atteso e liberatorio suono della classica campanella.
Il suono della campanella richiede un cerimoniale consolidato nei secoli e da sempre uguale.
E anche qui a Chiesa, come in tutte le scuole del regno, al segnale, la professoressa cercò di finire la frase inutilmente alzando la voce sul casino che immediatamente si scatenò nell’aula.
A quel punto tutto acquistò una velocità improvvisa. L’insegnante rinunciò a ogni messaggio e chiuse il libro che aveva davanti, cosa che diede il ‘la’ alla chiusura coordinata di tutti i libri sui banchi con un tonfo tombale. Tutti buttarono libri, matite e quaderni dentro le loro cartelle, tutti si alzarono con stridii di sedie infernali, tutti si precipitarono a recuperare giacche e cappotti appesi in bella vista in fondo all’aula sgomitando, inciampando e spingendosi, tutti si accalcarono cercando di passare in venti dall’unica porta nello stesso momento. Tutti urlando come ossessi.
Tranne una.
La giovane erede dell’Arma erano ormai giorni che alternava stati di normale convivenza infantile a lunghi momenti di cupa tristezza e di preoccupazione.
Come avevano già notato i suoi genitori e la professoressa Alba che di sottecchi, da qualche giorno, fedele alla missione non solo di insegnante ma anche di educatrice e tutor dei bambini a lei affidati, non la mollava un attimo.
I bambini sono meraviglie.
I bambini sono gioie straordinarie.
I bambini sono puri e puliti.
I bambini rendono la vita di un uomo e di una donna meravigliosamente completa, con uno scopo, con un obiettivo. In più.
Ma i bambini sono anche spesso terribilmente lontani, difficili, incomprensibili.
E quando non capisci sei morto, incapace di ‘fare’, di intervenire, di aiutare e quindi di risolvere.
Vedere soffrire un bambino, tuo figlio, è come morire.

La professoressa Alba non aveva mai avuto figli, ma in fondo li aveva avuti tutti. O almeno tutti quelli che le passavano tra le mani a scuola nei regolari tre anni di un ciclo della secondaria.
Non era più una ragazzina, aveva esperienza e di generazioni ne aveva tirate su ormai a sufficienza.
Quindi la Giulia la conosceva bene, ne comprendeva i tormenti, sapeva valutare le sue infinite qualità e in fondo era una delle ragazzine della sua classe che meglio conosceva.
Vederla, come dire, spenta le faceva piangere il cuore. Lei, una delle mattatrici della scuola, non solo della classe, tutta piena del ruolo di figlia di una delle personalità del paese, una delle protagoniste di tutte le iniziative della scuola, vederla ai margini, occhi bassi e lontana da tutto, beh...destava molta preoccupazione.
Nello stesso istante la madre, dopo la deludente indagine del marito e sua presso la società civile malenca, decise che se questo andazzo depresso non finiva, la sua ultima speranza era richiedere un colloquio alla professoressa Alba e cercare di comprendere se anche a scuola il comportamento e l’umore della figlia erano stati notati e appuntati.
Ma se i genitori non sapevano nulla e non riuscivano a capacitarsi di cosa stesse vivendo la loro amata figlia, noi invece sappiamo tutto. E lo raccontiamo.

Dopo il ritrovamento della cartolina, Giulia era girata alla larga dal cantiere. Aveva più volte sollecitato il prode Mattia a seguirla in ulteriori spedizioni esplorative, per vedere a che punto erano i lavori, se stava succedendo qualcosa di misterioso, se c’erano altre cartoline. Ma Mattia aveva sempre rifiutato, un po’ per paura, un po’ per raffreddori incipienti, un po’ per impegni.

- Sei un cagone!, dopo l’ennesimo no.
E allora? Giulia sempre più intraprendente, sempre più spinta da una volontà di autonomia insolita per quell’età, aveva deciso di fare da sola.
Un giorno, quindi, aveva raccolto tutto il suo coraggio e messa in tasca tutta la sua curiosità, aveva fatto una visita solitaria alla piscina neo-nascente.
Si era avvicinata al Valtellina con fare indifferente, aveva superato il cancello, percorso il viale che portava all’altro lato dell’edificio, attraversando il piazzale del parcheggio del condominio, ora occupato in gran parte dai soli mezzi del personale al lavoro.

Scorse in lontananza un paio di manovali alle prese con il trasporto di materiali, si acquattò dietro a un camion impolverato in attesa che passassero, sfilò tra i mezzi lungo il muro e finalmente raggiunse quella che, a lavori ultimati, sarebbe stata l’uscita di emergenza, verso l’esterno, della piscina. Naturalmente l’entrata sarebbe stata realizzata all’interno dell’edificio, nella grande hall, con una scala che conquistava le viscere dell’edificio e con un lungo corridoio che avrebbe permesso di raggiungere il centro termale direttamente dagli appartamenti, per chi avesse voluto scendere direttamente in accappatoio e costume.
Annusò l’aria come una faina, affilò gli occhi come una pantera e appoggiandosi con le mani, al muro perimetrale, strisciò piatta come un serpente conquistando l’oscurità dell’ambiente. Che poi tanto scuro non era più.
Un impianto di illuminazione, sebbene provvisorio, mostrava al prossimo che lì le cose andavano avanti e che i lavori erano a buonissimo punto.
E ci credo. Il problema è che lo scenario che si trovò di fronte Giulia non era più così eccellente per nascondersi, per infilarsi e per sbirciare senza essere visti. E infatti l’avevano beccata subito.

- E tu che ci fai qui?
Lei si gelò, si fermò e si fece cogliere da un’ondata di terrore che non aveva provato mai nella vita.
- Lo sai che qui non si può entrare? Ehi, continuò l’operaio girandosi verso l’interno dell’ambiente, - abbiamo una clandestina!! Aiuto, correte!!! concluse facendo lo spiritoso e mettendo a Giulia ancora più agitazione addosso.
Un altro paio di giovani manovali accorsero, cominciando a sbellicarsi dalle risate per quella situazione paradossale, circondando la piccola ragazza con un atteggiamento poco rassicurante.
Lei si voltava a guardarli tutti, a uno a uno, sentiva le lacrime salirle agli occhi, ma non voleva cedere. Una paura infinita la avvolse. Una brutta situazione.
Voleva solo uscire, scappare, ma le gambe pensavano ad altro in quel momento.

- Ehi, ma che diavolo state facendo? Siete impazziti?, salì improvvisamente una voce dal fondo del grande salone, immerso parzialmente nel buio. - Ma non vedete che è solo una ragazzina, animali che non siete altro?
Il capo manovale, braccio destro del Berardi, di fatto il responsabile operativo del lavoro, aveva alzato la voce perentorio, e se avesse potuto, avrebbe alzato anche qualche schiaffo.
Si avvicinò, velocemente, strattonò qualcuno a caso, e senza più proferire parola, ordinò a tutti di tornare al lavoro, in fondo, senza lasciare possibilità di replica.
Tutti si allontanarono, spingendosi senza reprimere imbecilli sorrisini degni della loro stupidità.

- Allora ragazzina, cosa fai qui, non lo sai che è pericoloso? le domandò cercando così di tranquillizzarla.
Le indicò l’uscita, la seguì all’esterno e finalmente alla luce, le domandò nervoso: 

- Ma tu sei la figlia del signor maresciallo, vero? Com'è che ti chiami?
Lei lo guardò torva, torcendosi le mani e incrociando i piedi. Una marionetta.

- Mi chiamo Giulia, rispose con un sibilo di voce. - Sì, sono sua figlia, cercando di vincere l’imbarazzo e la profonda vergogna.
La cosa era finita lì, ma il capo cantiere l’aveva rimbrottata con decisione, senza alcun timore reverenziale, e le aveva anche detto che alla prima occasione avrebbe riferito tutto a suo padre. Questa ultima affermazione l’aveva gettata in un senso di prostrazione assoluta, mescolando sensi di colpa e un’incazzatura a mille. Ma soprattutto era consapevole che l’avrebbe pagata, e molto salata, soprattutto se non avesse anticipato la spiata dell’uomo con una sua più spontanea e onesta confessione al padre. Anche sulla cartolina, visto che ormai tutto era collegato in un unico filotto di figure di palta.
Si, avrebbe fatto così. Era l’unico modo di salvarsi, pensò, tornando a casa con la coda tra le gambe.
Ma tra il dire il fare, anche in montagna, c’era di mezzo il mare.

41.

Il lavoro dei carabinieri non era solo a volte pericoloso e a volte noioso, ma come tutte le professioni non ‘classiche’, non aveva orari ben definibili. Soprattutto nei fine settimana, sosta meritata per ricaricare e ricaricarsi, almeno un po’.
Quando il maresciallo aveva un weekend completamente per sé e per la sua famiglia, lo programmava con entusiasmo nei minimi particolari, suddividendolo in due parti uguali e opposte.
Il sabato era il vero giorno di godimento assoluto, in cui si potevano fare le cose che non si riusciva a fare mai. Gita dove si voleva a carattere naturalistico oppure artistico-culturale; shopping e spese varie spostandosi, quando si voleva, anche fino a Milano. Quando invece Giulia aveva lezione optava per il semplice cazzeggio in paese tra pasticcerie, piccole spese, ristorante se ne aveva voglia anche sua moglie oppure letture in casa o giardino fino a finire la serata davanti a un buon film. Il tutto alimentato, in qualsiasi situazione, da chiacchiere cordiali, incontri piacevoli e gentilezze varie. Una meraviglia. Una sorta di poesia pascoliana post litteram.
L’ultima opzione era quella che il maresciallo aveva più a cuore, quella che lo faceva veramente rilassare, staccare da tutto. E lo manifestava con un sorrisino ebete e perenne sulla faccia che cominciava appena al risveglio, ancora prima del caffè di apertura, fino al momento in cui appoggiava soddisfatto la testa sul suo cuscino alto appena due dita.
Poi, invece, c’era la domenica, che lo vedeva comparire la mattina in cucina per la colazione già con un ghigno sofferente, già con la testa al lunedì e con la mente tutta rivolta alle grane che sicuramente aveva lasciato in sospeso il venerdì e che gli sarebbero cadute addosso il giorno dopo. Al massimo poteva concepire un invito a pranzo a casa di qualche amico oppure in casa loro, ma alle quattro tutti dovevano essere fuori dai piedi, perché lui doveva ripiombare nel suo tenebroso umore e cominciare un faticoso approccio alla modalità ‘uomo d’ordine’ che sarebbe sbocciata il mattino seguente indossando la sua beneamata divisa.
Quando, quel weekend, il maresciallo comprese di averlo tutto per sé e per la sua famiglia, cominciò a goderne, quasi a livello fisico. E nella sua testa, ancora a letto di primo mattino, provò a programmare la sua giornata tipo, cercando almeno ora, di dimenticarsi la domenica. E la preoccupazione per sua figlia.

- Bene, il meteo sembra perfetto questo sabato, iniziò a pensare tra sé e sé. Azzurro terso, possiamo pensare di passare insieme la giornata, in pieno relax, si confidò sbirciando tra gli alberi del giardino una volta sollevata la tapparella della stanza.
 E volgendosi verso la sua compagna di vita, le sussurrò:

- Buongiorno amore mio, è sabato, giornata splendida, liberi tutti, che facciamo?

Si voltò, assonnata, si pulì gli occhi con il dorso delle mani, lanciò in alto le sue lunghe braccia stirandosi all’inverosimile, lo fissò negli occhi.
È bellissima, pensò l’uomo di legge, e gli prese una voglia irrefrenabile di baciarla.
Lei continuò a fissarlo. 
- Bene. Per ora vestiti, sveglia tua figlia, dalle la colazione e portala a scuola. Grazie. Poi ne parliamo. Nel pomeriggio, quando avrà finito scuola.
E si rituffò con convinzione nelle coperte, con il chiaro intento di poltrire un po’ e di non pensare proprio a nulla. Almeno per un po’.
La giornata non iniziava nel migliore dei modi, pensò il Pandolfi.

42.

Uscito dal cantiere Berardi impugnò il telefono, richiamò il numero dalla rubrica come se volesse affilare il coltello da assalto e si portò il telefono all’orecchio assumendo la posa del generale che dall’alto del colle osserva lo scontro con il nemico: gambe larghe, sguardo fiero al futuro e mano in tasca come se fosse Pecos Bill in attesa del duello del secolo.

- Pronto? Silvana?
Non poteva aspettare neanche un minuto in più dopo la telefonata inopinata di prima.
- Non devi rispondere, non devi fare nulla, non devi neanche fiatare, gli urlò velocissimo nelle orecchie, perpetrando il gioco inaugurato da lei.
- Tra poco più di un’ora sono lì, aspettami e ne parliamo. Clic, o come diavolo è l’interruzione della chiamata 2.0.
Lei sorrise, avevano un’intesa perfetta, immediata, condita dallo stesso tasso di ironia e di seduzione.
Guardò il Pizzo che dominava la valle. Guardò la valle che si stendeva stretta e ruvida in giù.
E andò nella sua camera per prepararsi.

43.

Chiamata alle armi!!
I soci del ‘club’ più esclusivo del paese erano stati convocati con lettera raccomandata e con relativo sigillo per quel pomeriggio.

- Alura, esordì il Monatti, assumendo l’onere e l’onore della presidenza della riunione. 
- C’è maretta in casa Pandolfi, avete sentito?, domandò alla platea qualificata che si era schierata di fronte in attesa del la al dibattito.

- Cioè? chiese distrattamente il farmacista, da sempre punto di riferimento culturale della teoria di origine afro-asiatica denominata ‘Sento tutto ma faccio finta di non ascoltare nulla’.

- Cioècioè, ghè poc de dì, aggiunse il Monatti. - Il Pandolfi, insieme alla marescialla, va in giro per tutta la valle chiedendo cosa è successo alla loro figlia. Sembra che la ragazzina sia caduta in depressione, o che abbia un segreto irriferibile. Me l’ha confermato anche il postino che l’ha sentito l’altro giorno mentre faceva la fila al market.
- Certo, anche il postino, il macellaio e pure la perpetua ed è arrivata anche la bolla papale a conferma, ribatté il Mascherpa con ironia.
Insomma, questa indagine ‘informale’ scatenata dalla famiglia, era stata presto scoperta dal paese, che in questi casi reagiva come un unico corpo, pensante e vivente, e che quindi in pochi passaggi tirava le conclusioni e fine della storia.
Conclusioni, tra l’altro, non necessariamente corrette e verificate. Ma nel momento in cui erano raggiunte, e approvate dai più, diventavano automaticamente realtà senza se e senza ma. Neanche il padreterno avrebbe fatto cambiare loro opinione.


- Qualcuno però mi spieghi, rintuzzò il Mambelli, come fa una ragazzina di dodici anni a essere depressa? Non vi sembra di esagerare? La madonna…

- Il Mambelli non ha tutti i torti, ribadì il Riva appena unitosi all’allegra combriccola. - I bambini è meglio lasciarli stare, non trovate?
Tutti si guardarono in faccia, chi con un senso di colpa grosso come una montagna, chi con un interrogativo disegnato sulla faccia, sicuro di non aver fatto né detto nulla di male.

- Resta il fatto, insistette il Monatti, che la coppia va in giro per il paese manco fossero Maigret e signora, facendo strane domande, indagando, cercando chissà che cosa. È venuto anche qui dentro, l’altro giorno, vi ricordate?

- Cerchiamo di dare il giusto peso alle cose, però. Evitiamo di trarre conclusioni che possono portare conseguenze senza controllo per un piccolo essere che, sebbene sia una iena, non ha ancora gli strumenti dell’ironia e soprattutto di difesa contro le malelingue, rinforzò l’edicolante. - E poi Pandolfi potrebbe incazzarsi e allora il problema diventa un gigantesco casino! Magari sono preoccupati sul serio, come farebbe un normale genitore per i propri figli. Stanno solo cercando di capire. Voi non fareste lo stesso? concluse, senza timore di smentita, il Riva.
Tutti annuirono. Nessuno era cattivo. Tutti erano lupi nella steppa, assatanati contro il prossimo e contro la vita, ma senza volontà di far del male. Anche nella steppa vigono regole...

44.

E anche quest’anno, alla faccia del riscaldamento del pianeta, dell’effetto serra, dell’inquinamento, della furia di qualche dio che non andava più d’accordo con le sue creazioni millenarie, arrivò la neve.
Novembre, il mese dei morti, il mese della nebbia, del freddo nelle ossa e dell’acqua torrenziale si era convertito in qualcosa di più invernale, riversando in una notte dieci centimetri di bianca coltre che faceva ben sperare per l’apertura della stagione sciistica e scongiurava, se fosse continuato così, l’uso dei mezzi di imbiancamento artificiale che consentivano sì di sciare, ma che lasciavano sui crinali montani la sensazione che qualcuno avesse loro inflitto delle ferite mortali. Quelle strisce imbiancate in mezzo al verde erano come cicatrici dolorose.
Senza pensare all’uso indiscriminato dell’acqua che abbassava di molto il livello dei bacini. Ma dopotutto il business non si poteva fermare e la gente aveva bisogno di lavorare.
Il maresciallo era uno sciatore provetto, anche se non grande amante di quello sport.
Adorava la montagna, amava arrampicare e praticare l’alpinismo classico in quota quando poteva, anche con gli sci da alpinismo ai piedi. Tutte tecniche che contemplavano il silenzio, spesso la solitudine. In questo era un po’ snob e appena poteva si tirava fuori dalla mischia e si isolava dal mondo con grande soddisfazione e godimento fisico.
Lo sci era invece gente, caos, impianti, musica. Si divertiva, ma fino a un certo punto.
Per questo, quel giorno di prima nevicata, quando il carabiniere Russo gli venne incontro entusiasta come un bambino per segnalargli quello che a tutti era evidente, lui si scansò irritato, pensando che stava iniziando la stagione del casino assoluto, di auto senza catene messe di traverso, di file alla funivia, di gambe rotte e di turisti ubriachi in giro per il paese alle ore più improbabili. Oltre alla faccenda della figlia, che l’aveva costretto a convivere da settimane con un nervosismo palpabile.
E questo disse a Russo, stroncando sul nascere l’eccitazione adolescenziale del giovane militare e facendolo vergognare come un bambino.
E non solo. Gli andò addosso come non mai, chiedendogli notizie sulla cartolina, se aveva fatto indagini, se si fosse informato, se insomma avesse ‘mosso il culo’.

- Ma maresciallo, io non sapevo che mi sarei dovuto muovere per quella cartolina, rispose paonazzo Russo. Non mi ha mai ordinato di farlo!, accentuando la sua cadenza campana come ogni volta che si sentiva in difficoltà.

- Qui mi tocca fare tutto io, esplose il maresciallo, - qui nessuno fa una mazza. Ne ho le scatole piene!
Si girò, voltò la schiena al sempre più esterrefatto giovane militare e se ne tornò in caserma sbraitando da solo e gesticolando furiosamente.
Per fortuna che la nevicata fitta faceva intravedere solo qualcosa e soprattutto aveva costretto molti a starsene al caldo nelle case. Nessuno lo aveva visto.
Il maresciallo entrò in caserma, rimbrottò il piantone che era seduto su una sedia a riscaldare le terga piuttosto che essere in piedi con posa marziale, si diresse verso il suo ufficio e vi cascò dentro, sbattendo la porta alle sue spalle. 

- Allora, di ‘sta cartolina, ce ne vogliamo occupare, sì o no? urlò alle pareti ignare, ma soprattutto a se stesso? E picchiò un sonoro pugno sulla scrivania, facendo cascare in fila telefono fisso, portapenne pieno di tutto punto e il pacco di infingardi documenti che erano già in equilibrio precario.
Guardò sconsolato lo scenario, si mise le mani tra i capelli e pensò a sua figlia.
Doveva trovare una soluzione, una volta per tutte.

45.

Quel sabato, portata la figlia a scuola, rientrò in casa.
Al maresciallo, a questo punto stavano girando i maroni a mille.
Questo periodo no di Giulia stava ormai durando da troppo tempo e la cosa cominciava a preoccupare seriamente il padre. E la madre. Che tentavano in tutti i modi di non darlo a vedere, di non farlo sapere e capire.
Ma ormai il paese, come si è detto, aveva inteso qualcosa e la figlia stessa aveva notato che i genitori avevano cambiato atteggiamento con lei, più remissivi, smisuratamente affettivi, le sembrava anche che non parlassero più ma che bisbigliassero.
Il maresciallo, uomo del fare tutto di un pezzo, quel giorno decise che questa preoccupazione doveva finire, a costo di scoperchiare chissà quale vaso di Pandora. Così, subito dopo, si sarebbero affrontate le questioni, si sarebbe analizzato il problema e si sarebbero trovate le soluzioni. Si vedeva già sulle barricate, a combattere chissà quale male che aveva preso di mira la sua amata figlia.

E quindi? Quindi fece quello che farebbe un qualsiasi padre, ne parlò alla moglie. 
- Elena, per favore, ne possiamo parlare un attimo?, la imbeccò un po’ a tradimento, mentre era alle prese con le faccende domestiche del sabato mattina.

- Parlare di che?, gli rispose anche se aveva capito benissimo dove voleva andare a parare.
Ma a volte, la marescialla, aveva un gusto sadico a tenere sulle spine il suo amato uomo, che adorava al novantanove per cento, riservandosi un uno per cento per sé in modo da contestarlo. Non sapeva perché, ma a volte doveva incrinare il suo ruolo di uomo di legge, perché non si poteva vivere solo di certezze.
Lui non ne aveva voglia, quella volta, quella mattina. Non aveva voglia di giocare con le parole, di farsi punzecchiare, di farsi prendere in giro all’inverosimile. La questione era troppo importante e non bisognava perdere tempo.

E lei comprese al volo. Le bastò guardarlo in faccia. Era veramente in uno stato di prostrazione, terrorizzato che fosse capitato qualcosa di serio a sua figlia. E anche lei non era da meno.

- Ok Marco, scusa. Parliamone, facciamo il punto, decidiamo come muoverci.
Lui a quel punto si rilassò, accolse la complicità della moglie, sicuro che una soluzione, insieme, l’avrebbero trovata.

- Io penso che tu debba parlarle senza esitazione, buttò lì il maresciallo.

- Perché io?, rispose Elena, rompendo di nuovo quell’incantesimo che sembrava si fosse creato poco prima. - Perché non tu?, e prese a fissarlo, con un’aria di sfida che non faceva prevedere nulla di buono.
Lui la guardò. Pensava che lei fosse più adatta, che sarebbe stato meglio che da donna a donna corressero parole senza difficoltà di genere. Ma non disse nulla, perché si era sempre assunto il ruolo di padre, non era mai fuggito, non aveva mai demandato nulla se non nella concordata suddivisione dei ruoli.
Lui resse lo sguardo di sfida che la moglie gli aveva scaraventato addosso, pensando in contemporanea che questa tensione-avversione non aveva alcun fondamento. Infatti lei capì subito di avere assunto un atteggiamento immotivato.

- Scusami ancora, sono anch’io molto preoccupata per Giulia, molto. Non so cosa pensare, non riesco a comprendere cosa stia succedendo. L’altro pomeriggio, approfittando della sua assenza, ho frugato la sua stanza, una perquisizione in piena regola. Ne saresti stato orgoglioso. Ma non ho trovato proprio nulla, niente di niente, neppure un blando indizio. Non so se sia meglio così, ma siamo ancora al punto di partenza. E questo dubbio mi sta consumando.
E continuò.

- Giulia è una brava ragazza. Giudiziosa, sensibile, attenta agli altri. Ha un carattere forte, ma di lei mi fido a occhi chiusi. Quindi qualsiasi cosa sia successa, sono certa che non dipende da lei. Speriamo che tutto ciò sia solo una gigantesca bolla di sapone.

Lui la guardò con amore, almeno così sembrava.
La fissò per qualche istante, e quindi disse la sua.

- Ok, no problem, le parlo io. Speriamo che si apra con me.
Il maresciallo contava sull’intesa che aveva con Giulia.

- Appena torna da scuola le parlo, ripeté senza possibilità di replica.


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